Il 20 Ottobre si aprirà la stagione di prosa del teatro "Goldoni" di Venezia: ad inaugurarla, una rappresentazione di Immanuel Kant di Thomas Bernhard, per la regia di Alessandro Gassman. Un'ottima occasione per rimettere piede a teatro e per parlare di Bernhard che, come sapete, è uno degli autori che più mi stanno a cuore.
Introducendo il postumo Meine Preise/I miei premi, avevo citato incidentalmente una piéce minore, Die Macht der Gewohnheit/La forza dell'abitudine, per esemplificare lo sguardo straniato e freddamente oggettivo che caratterizza l'intera parabola creativa bernhardiana. Immanuel Kant non si discosta da queste coordinate: notiamo una lingua ricca, che attinge con precisione chirurgica a molti campi semantici, facilmente riconoscibile per la frequente ripetizione di alcuni incisi che, come fossero dei Leitmotiv, conferiscono un senso di coesione ed unità alla materia letteraria.Bernhard si serve di questo arsenale stilistico per dipingere un'umanità malata, corrotta, intrinsecamente condannata a ripetere infruttuosi schemi di comportamento dai quali non ha mezzi e voglia di uscire. Il risultato è un penetrante realismo psicologico, che nei romanzi si colloca sullo sfondo di una realtà storicamente e socialmente ben definita (l'Austria della seconda metà del novecento), mentre nel teatro si staglia su realtà irreali o quantomeno improbabili, comunque caratterizzate da un grottesco intimamente crudele, tragico ed incline al nichilismo.
Alla luce di queste considerazioni preliminari, diventa chiara la citazione che precede la piéce. Bernhard cita, non a caso, un altro sostenitore della "crudeltà" del teatro, Antonin Artaud: ...ciò non deve significare - dice Artaud - che nel teatro si debba rappresentare la vita. Detto fatto. Dimentichiamoci la rappresentazione stereotipa di un Kant figlio del settecento, perennemente isolato nella sua Königsberg: il Kant di Bernhard viene rappresentato a bordo di un transatlantico, mentre si reca negli USA per ricevere una laurea honoris causa e curare un glaucoma che gli oscura progressivamente la vista. A fargli compagnia, oltre alla moglie, al servitore Ernst Ludwig e ad alcune figure (una milionaria, un collezionista d'arte, un ammiraglio) che certo non si distinguono per lungimiranza ed amore per il prossimo, il pappagallo Friedrich, l'unica entità sulla scena di cui Kant sembra fidarsi ciecamente, dal momento che è l'unico che ne segue le contorte evoluzioni intellettuali.
Kant sfodera una disillusione a tutto campo e demolisce i possibili appigli dell'uomo contemporaneo (la piéce debuttò il 15 aprile del 1978. Caso vuole che fosse l'anniversario della prima di Kabale und Liebe di Schiller!). Il protagonista si confida con il pappagallo Friedrich, segno che degli esseri umani, qui impersonati dal mondo delle accademie, non si fida (perfetto! Fa il paio con le amare considerazioni sull'istruzione obbligatoria di Der Keller/La cantina e con il rifiuto della cultura/evento mondano in Meine Preise); definisce la natura la più grande artificiosità; pur condannando duramente il capitalismo americano, parla di Marx e Lenin al passato, definendoli rispettivamente un buono a nulla e un povero demente e proclamandosi a sua volta - in maniera roboante - socialista vero, reale. Conoscendo la vita di Bernhard, vicino al partito socialista austriaco dal quale poi si dissociò, si può azzardare che per bocca di Kant parli Bernhard stesso, che si premura di mettere in guardia dall'ancorarsi a saldi punti fermi, siano essi una cieca fiducia nella natura e nel progresso umano o nelle grandi utopie/Weltanschauungen del novecento; tanto meno, pare dire l'autore tramite le velleitarie professioni di fede politica di Kant, ha una qualche utilità aggrapparsi a "terze vie" di stampo socialista-socialdemocratico.
Insomma, Immanuel Kant può essere letto come una parabola nichilista fredda, essenziale nella lingua (ricordo l'assoluta assenza di segni di punteggiatura!) come nei dettagli della messinscena (scenografie scarne, indicazioni di regia limitate allo stretto indispensabile e comunque ascrivibili ad un'impressione generale di forte asetticità). Pur non avendo la forza di quello che a mio parere è il capolavoro del teatro di Bernhard, ovvero Der Ignorant und der Wahnsinnige/L'ignorante e il folle, Immanuel Kant è un lavoro che vale la pena di essere preso in considerazione. Peccato che sia difficile, se non impossibile, trovarne una traduzione italiana. Per fortuna che, a parziale riparazione, interviene la messinscena di Alessandro Gassman: date le premesse, credo che varrà il prezzo del biglietto.