Gli indizi che prima di vedere Threads (1984) mi portavano a pensare di trovarmi di fronte ad una pellicola patinata e senza mordente, scaturivano soprattutto dal fatto che il film fu prodotto per la BBC, e che quindi essendo pensato per un vasto pubblico fosse un’opera d’ovvia natura, anestetizzata dal contenitore in cui fu trasmessa.
Inoltre a scorrere il curriculum del regista Mick Jackson (lo script è di Barry Hines) c’era da rimanere dubbiosi di fronte a titoli come La guardia del corpo (1992) con Kevin Costner e Vulcano – Los Angeles 1997 (1997), uno di quei film passati quelle centocinquanta volte nel Ciclo Alta Tensione (?) di Italia Uno.
Tuttavia immemore del fatto che in Inghilterra sanno osare eccome con il tubo catodico anche nel recente presente, vedasi Dead Set (2008), ho dovuto smontare in fretta e furia ogni mio pre-giudizio perché Threads è una pietra miliare del genere, un’opera assolutamente imprescindibile.
Lo sfondo Storico è quello della guerra fredda, mentre il palcoscenico della storia è inizialmente suddiviso fra le famiglie di due giovani ragazzi che aspettano un bimbo e tra mille difficoltà cercano di mettere su casa. La duplice narrazione è accompagnata da un costante flusso di informazioni emesso dai giornali e dai notiziari, inoltre Jackson attua un processo di ibridazione che tocca le caratteristiche del documentario attraverso delle scritte esplicative sulla situazione politica internazionale che tanto assomigliano a dei bollettini di guerra. Tutto questo produce un lento ma irreversibile stato tensiogeno ancorato alla vita reale: è come essere a Sheffield e venire informati di ciò che accade in Iran (non sembra che le cose siano cambiate troppo nel 2010) sorseggiando una media al pub all’angolo o stando seduti di fronte alla tv durante il tg. La corrente del racconto nella prima magistrale parte si attua tramite il canale principe, quello della comunicazione globale che ha creato ciò che Guccini definirebbe “un mondo inventato”, e che la metafora della tela del ragno nell’incipit esplicita: se ne cade un pezzetto crolla anche tutto il resto.
Terminata la prima porzione di film che come detto crea mattone dopo mattone un sinistro muro di ansia, ecco che si giunge al fattaccio: un missile ha colpito l’Inghilterra, la guerra nucleare è arrivata. Con ogni probabilità senza molto denaro a disposizione, l’autore fa come il Lopushansky di Dead Man’s Letters (1986) inserendo immagini di repertorio che danno un effetto fortemente straniante alla vicenda. Una volta esplosa la bomba la pellicola entra nel vivo della sua essenza, ed ecco che subentrano in gioco quelle componenti citate all’inizio, le quali non solo ci sono ma hanno anche il pregio di farsi sentire poiché, a questo punto è il caso di dirlo, Threads è un film che chiude lo stomaco, serra la gola e toglie il respiro.
Pregio assoluto è che lo sguardo di Jackson si fa intelligente, egli riprende degli uomini-non-eroi, essi si riparano dietro a improbabili rifugi come in Quando soffia il vento (1986), non c’è nessun supereroismo hollywoodiano qui: le persone muoiono, muoiono soffrendo con la pelle squamata dalle radiazioni, perdono i propri figli, le proprie madri, i propri animali e i propri amori in un olocausto di cenere e nubi scure.
Ruth, la ragazza incinta, sebbene sia la protagonista, è continuamente vessata da orribili situazioni che la portano a commettere aberranti azioni come barattare il suo corpo per dei topi morti da mangiare o squartare una pecora e sbranarla sul posto.
Per di più l’obiettivo riprende parallelamente un sotterraneo governativo dove anche gli uomini di potere sono messi in ginocchio dalla tragedia, a testimonianza del fatto che gli argomenti e soprattutto le argomentazioni di Jackson e Hines sono dolorosamente eloquenti.
Il film non si ferma al subito prima e al subito dopo ma prosegue con una veduta ad ampio raggio raccontando gli eventi fino ai 13 anni successivi l’attacco nucleare sempre con uno stile caratterizzato da dettagli documentaristici. La morte di Ruth, vissuta con freddezza dalla figlia che cresciuta in quel mondo non sa cosa siano i sentimenti, rafforza il concetto di una visione cinematografica anti-americana dove il primo personaggio può morire senza grande ostentazione ma bensì in due o tre sfuggenti fotogrammi, e la piccola tredicenne sopravvissuta può a sua volta essere messa incinta per un po’ di cibo.
Threads mostra con pudore una realtà eventuale in cui si comprende il potenziale grado di coinvolgimento che noi stessi potremmo avere. È un’opera di orrore estremo che poggia le fondamenta su un’attualità che a 26 anni di distanza non ha smesso di essere tale; la mdp crea un contrasto distruttivo fra ciò che la società È e ciò che potrebbe diventare SE, e lo fa con uno spietato pragmatismo che lascia esterrefatti, minando alle basi tutte le sicurezze della nostra materiale esistenza. L’estetica appare perfino dozzinale in alcuni frangenti, tuttavia di fronte al puro dolore che la pellicola scaturisce ogni componente filmica più o meno riuscita passa in secondo piano, e se cercate nel cinema una visione in grado di farvi emozionare, nel bene o nel male, allora Threads è la scelta da fare.
Quando la giovane figlia partorisce nell’”ospedale” e l’infermiera appoggia la creatura fra le sue braccia, quel grido di terrore che ci viene risparmiato bloccando la pellicola sul frame continua dentro di noi.
Io non so cosa sia la DISPERAZIONE, ma da oggi so dove trovarla.
Passato (sembrerebbe) una sola volta dalla Rai col titolo Ipotesi di sopravvivenza.