Sylvia Plath è stata, di sicuro, una delle più grandi voci poetiche del novecento anglofono. Quando, all’età di trent’anni, decise di togliersi la vita, era già conosciuta nell’ambiente letterario e molti lettori vedevano nei suoi singolari versi il tentativo di mettere a nudo la propria disperazione, le emozioni violente, l’ossessione della morte.
Joyce Carol Oates così la definisce nel New York Times Book Review: “One of the most celebrated and controversial of postwar poets” (Una delle più controverse figure poetiche del dopoguerra)
Assieme ad Anne Sexton, Sylvia Plath contribuisce allo sviluppo del genere della poesia confessionale, iniziato da Robert Lowell e William De Witt Snodgrass, negli Stati Uniti, negli anni Cinquanta e Sessanta.
I poeti definiti confessionalisti si ispirano al proprio vissuto personale, spesso sede di loro traumi, e ne fanno centro di esplorazione, fonte di intensità per i loro testi.
Da loro discende l’arte del monologo drammatico di Florence Anthony, la cui visione poetica e i monologhi drammatici gelidi e taglienti hanno dato voce a emarginati, spesso poveri e abusati.
Subito dopo la sua morte, arrivano per la Plath i riconoscimenti critici, l’attenzione sempre più ampia e una sorte di culto, accanto ad una vera e propria caccia all’inedito.
“La campana di vetro”, The Bell Jar, pubblicato nel 1963 un mese prima della sua morte, e “Johnny Panic e la Bibbia dei Sogni”, sono tra le sue opere più importanti, benchè lei stessa fosse più concentrata a ricamarsi il ruolo di poetessa che di narratrice.
“La campana di vetro”, scritta sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas, è l’opera più matura dell’autrice. Fu pubblicata un mese prima della sua morte, quando la scrittrice preparò due fette di pane e burro e due tazze di latte per i bambini prima di sigillare porte e finestre e infilare la testa nel forno a gas. Tutte le altre opere sono postume, con l’eccezione della raccolta di versi The Colossus (Il Colosso), apparsa a Londra nel ’60 e a New York nel ’62.
Nella campana di vetro e in larga misura in tutta la sua poesia, la Plath esercita fin dall’inizio la capacità di analisi di sé, lo scandaglio di un’autocoscienza che la induce ad una continua esplorazione fondamentale e lucidamente tormentata. Certo, la sua indagine sulla natura e sull’individuo riflette un senso costante di solitudine e la minaccia reiterata dello estraniamento; nondimeno, la rappresentazione affonda nella realtà quotidiana.
E’ il caso dell’evocazione della fanciullezza e dell’adolescenza nelle sue varie facce. Si pensi a uno dei suoi racconti più significativi, Ocean 1212-W.
“Il paesaggio della mia infanzia non è stato la terra ma la fine della terra: le mobili colline fredde e salate dell’atlantico. A volte penso che l’immagine del mare sia la cosa più netta e sicura che possiedo. la raccolgo, esule quale sono, come i sassi “portafortuna” di cui facevo collezione da piccola, viola con un anello bianco tutto intorno, o come il guscio blu di una cozza con l’interno iridato che sembra l’unghia di un angelo; e sotto l’onda del ricordo i colori diventano più intensi e splendenti, il mondo dell’inizio respira. il respiro, è questa la prima cosa. Qualcosa respira. sono io? È mia madre? no, è qualcos’altro, qualcosa di più vasto, più lontano, più grave, più stanco. dietro le palpebre chiuse, mi lascio galleggiare; sono un piccolo marinaio, che assaggia il tempo che farà: colpi di maglio contro il muro frangiflutti, una mitragliata di spruzzi sui valorosi gerani di mia madre, o l’ipnotico sciabordio di una pozza lasciata dalla marea, simile a uno specchio; ai bordi, l’acqua smuove pigramente, delicatamente, i sassolini di quarzo, una dama che accarezza i gioielli. poteva esserci un sibilo di pioggia contro il vetro della finestra, o un vento che sospirando suonava le assi della casa come tasti di un pianoforte. Io non mi lasciavo ingannare. Il pulsare materno del mare si faceva beffe di tali contraffazioni. Come una donna scaltra, molto nascondeva; aveva molte facce, molti veli, delicati, terribili. Parlava di miracoli e di lontananze; se sapeva corteggiare, sapeva anche uccidere.”
E più oltre:
“Il respiro del mare, dunque. E poi, le sue luci. Che fosse un gigantesco radioso animale? perfino a occhi chiusi sentivo i riflessi luccicanti dei suoi specchi muoversi come ragni sulle palpebre. giacevo in una culla acquea, e bagliori marini, trovate le fessure degli avvolgibili verde scuro, giocavano e danzavano, oppure sostavano tremolando appena”
Così, Ocean 1212-W rappresenta il rito di passaggio, dall’infanzia alla scoperta del sé, dall’esistenza alla poesia. L’incontro con l’oceano è il sigillo dell’infanzia, la morte del padre. Le onde, i movimenti marini, riflettono la dialettica padre-madre, la superano e traghettano la poetessa verso la sua identità di donna e poeta. La madre diviene il movimento dell’acqua, il padre il fondale che sostiene l’acqua, il punto stabile, il letto dove dormono senza pace gli annegati.
In Full Fathom Five, il padre assume i connotati di un dio nascosto e marino:
“Per miglia
si stendono i mannelli a raggiera
dei tuoi capelli sparsi, nelle cui matasse increspate
annodato, impigliato, sopravvive
l’antico mito di origini
inimmaginabili”
…sebbene da quei segni di morte, sedimentati sul fondo, trae forza.
“Dalla vita in giù, forse tu attorci
un unico viluppo labirintico
per radicarti a fondo tra falangi, tibie,
teschi”
Ed ancora:
“Come si aggrappano a noi sempre e ovunque, come
li abbiamo incrostati addosso questi morti!” – All the Dead Dears
“I morti non hanno mai pace” direbbe Sylvia Plath “ riaccendono costantemente il loro dramma nei vivi”
“un dio gelido, un dio delle ombre
che sale dai suoi neri abissi” – Ouija
L’acqua, la mente, la rinascita che comporta l’oltrepassare la morte: la vittoria sull’immobilità. In quest’ottica ha grande importanza Poem for a Birthday, un poemetto diviso in sette sezioni, ambientato nel mese di ottobre, stagione della semina, dell’inverno che avanza, del buio, di ciò che verrà seppellito sotto la coltre del gelo e del freddo.
The month of flowering’s finished. The fruit’s in,
Eaten or rotten. I am all mouth.
October’s the month for storage.
The shed’s fusty as a mummy’s stomach:
Old tools, handles and rusty tusks.
I am at home here among the dead heads.
Il mese della fioritura è finito. Il frutto è colto
mangiato o marcito. Io sono tutta bocca.
e Ottobre, il mese dell’accumulo
Il capanno sa di muffa come lo stomaco di una mamma:
strumenti vecchi, maniglie e zanne.
Qui sono a casa tra le teste dei morti.
L’atmosfera annuncia il deperimento, le immagini teriomorfe e più in là:
Let me sit in a flowerpot,
The spiders won’t notice.
My heart is a stopped geranium.
If only the wind would leave my lungs alone.
………..
O the beauty of usage!
The orange pumpkins have no eyes.
These halls are full of women who think they are birds.
This is a dull school.
I am a root, a stone, an owl pellet,
Without dreams of any sort.
Fatemi sedere in un vaso
il ragno non se ne accorgerà
Il mio cuore è un geranio addormentato
se solo il vento non disturbasse i miei polmoni
……….
Oh, bellezza dell’usato
Le zucche non hanno occhi
Le sale piene di donne che si credono uccelli
Questa scuola è stupida
E io ne sono la radice, la pietra, il bolo del gufo
Senza più sogni di alcun tipo
L’unica preghiera è a sua madre:
Mother, you are the one mouth
I would be a tongue to. Mother of otherness
Eat me.
Madre, tu sei l’unica bocca
di cui vorrei essere lingua. Madre dell’alterità,
mangiami.
In questi versi abbiamo la dissacrazione dell’essere della poetessa, l’invito, rivolto alla madre, ad un atto di cannibalismo, un ritorno all’utero che protegge e nutre, al buio per una luce diversa (?)
La poesia di Sylvia Plath sa essere poesia alchemica e se qui troviamo la voglia di morte della materia, in altri versi non mancherà l’esistenza che si svela con il tempo e il sangue, mentre il tumulto della vita sarà inevitabile e al rosso dei tulipani si opporrà sempre un bianco, la resurrezione.
I tulipani sono troppo eccitabili, e’ inverno qui,
guarda quanto ogni cosa sia bianca, quieta e innevata.
Imparo la pace, mentre si posa quieta a me vicina
come la luce su questi muri bianchi, questo letto, queste mani.
Non sono nessuno; niente a che fare con le esplosioni.
Ho dato il mio nome e i vestiti alle infermiere
la mia storia all’anestesista e il mio corpo ai chirurghi.
Hanno appoggiato la mia testa tra cuscino e bordo del lenzuolo
come un occhio fra palpebre bianche che non si chiuderanno.
Stupida pupilla, di tutto deve fare incetta.
Le infermiere passano e ripassano, non disturbano,
passano come i gabbiani verso terra nelle loro cuffie bianche,
facendo cose con le mani, uguali l’una all’altra,
cosi’ che e’ impossibile dire quante siano.
……………
Non volevo fiori, volevo soltanto
sdraiarmi a palme in su completamente vuota.
Come si sia liberi, non avete idea quanto liberi –
la pace e’ cosi’ grande che abbaglia,
non chiede nulla, un’etichetta col nome, qualche bazzecola.
Con questa, alla fine, chiudono i morti; li immagino
masticarsela come un’ostia da Comunione.
I tulipani sono troppo rossi in primo luogo, mi feriscono.
Questa poesia, I Tulipani, fu ispirata dall’esperienza ospedaliera, conseguente ad un ricovero, che Sylvia Plath subì per essere sottoposta ad una brutta appendicectomia. La compose quasi a voler scrivere una lettera urgente. Da allora in poi tutte le sue poesie furono scritte in questo modo e il tempo che le restò da vivere non fu esagerato.
La perfezione sarebbe arrivata presto, troppo presto.
Nel suo ultimo testo testamento, Edge, orlo, limite, punto estremo e pericoloso di approdo, ma anche forse di un inizio diverso, di una rinascita perseguita in tutta la sua poesia ed ora urgente, la scelta improrogabile disperata: il suicidio.
La donna ora è perfetta
Il suo corpo
morto ha il sorriso della compiutezza,
l’illusione di una necessità greca
fluisce nei volumi della sua toga,
i suoi piedi
nudi sembrano dire:
Siamo arrivati fin qui, è finita.
I bambini morti si sono acciambellati,
ciascuno, bianco serpente,
presso la sua piccola brocca di latte, ora vuota.
Lei li ha raccolti
di nuovo nel suo corpo come i petali
di una rosa si chiudono quando il giardino
s’irrigidisce e sanguinano i profumi
dalle dolci gole profonde del fiore notturno.
La luna, spettatrice nel suo cappuccio d’osso,
non ha motivo di essere triste.
E’ abituata a queste cose.
I suoi neri crepitano e tirano.
Un suicidio annunciato in Lady Lazarus, poesia indirizzata ad una persona sconosciuta, forse a se stessa, il cui inizio dirompente non lascia spazio a interpretazioni, tanto brutale e diretta nel suo significato.
I have done it again – L’ho rifatto.
Una morte da cui risorge per poi considerarsi Lazarus “ a walking miracle” un miracolo ambulante. Ma chi è il nemico?
Via il drappo,
O mio nemico!
Faccio forse paura? –
Il naso, le occhiaie, la chiostra dei denti?
Il fiato puzzolente
In un giorno svanirà.
Presto, ben presto la carne
Che il sepolcro ha mangiato si sarà
Abituata a me
E io sarò una donna che sorride.
Non ho che trent’anni.
E come il gatto ho nove vite da morire.
Questa è la numero tre.
“Lady Lazarus” non è una poesia confessionale scritta con l’intento di comunicare sentimenti deprimenti, ma è soprattutto una denuncia contro la potenza della figura maschile che usurpa la creatività delle donne e che lei contrasterà con la sua rinascita. Lady Lazarus sa che “Herr Doktor” reclamerà il suo corpo e i suoi resti, dopo averla condotta al suicidio, ma nonostante ciò lei risorgerà e mangerà uomini come fossero aria di vento.
Eh sì, Herr Doktor.
Eh sì, Herr Nemico.
Sono il vostro opus magnum.
Sono il vostro gioiello,
Creatura d’oro puro
Che a uno strillo si liquefà.
Io mi rigiro e brucio.
Non crediate che io sottovaluti le vostre ansietà.
Cenere, cenere –
Voi attizzate e frugate.
Carne, ossa, non ne trovate –
Un pezzo di sapone,
Una fede nuziale,
Una protesi dentale.
Herr dio, Herr Lucifero,
Attento.
Attento.
Dalla cenere io rivengo
Con le mie rosse chiome
E mangio uomini come aria di vento.
L’immagine dell’olocausto: “Herr Dokter”, “Herr Enemy”,”Herr God”, “Herr Lucifer”, “Nazi lampshade”, “Jew linen”. Ma i tedeschi che ignorarono l’olocausto non sono diversi dalla folla
La folla sgranocchiante noccioline
Si accalca per vedere
Che mi sbendano mano e piede
Quasi un rimprovero ai crudeli umani che non si assumono l’infelicità l’uno dell’altro, un esplorare, un urlo di vita e non semplicemente un mostrare arte nella morte.
Londra, 11 febbraio 1963. Fine!