Nel breve spazio tra un'estate e l'altra, la tenerissima Elspeth così si descrive a sua figlia. Frances, vedova da poco, non l'attendeva e stenta e riconoscersi in quella donna capricciosa e un po' effimera, viva e insicura, sfacciata e accoccolata nella sua bellissima e calda pelliccia.
Elspeth è, a tutti gli effetti, L'ospite d'inverno, la vita messa tra parentesi tra la felicità di un'alba e i sospiri del tramonto. Alan Rickman ha tratteggiato con le due donne una sceneggiatura dura e fredda, ben oltre le temperature polari inconsuete perfino nelle stagioni più gelide della Scozia.
Forse un po' manierato nella sua insistenza oligocromatica, spezzata da rare ma efficaci inquadrature policrome, L'ospite d'inverno è un film che commuove ben oltre le intenzioni e le tecniche predisposte per colpire lo spettatore.
Certe musiche, certe inquadrature "a effetto" sono forse meno incisive di quanto Rickman volesse e le brevissime scene intercalari suonano qua e là insipide nell'insieme - segno di una debolezza narrativa intrinseca nella sceneggiatura del dolore. Eppure, molti dialoghi e diverse inquadrature mi hanno suscitato, non posso negarlo, un brivido di commozione.
Tutta la pellicola ruota attorno a quest'idea della vita bramata: dagli irrequieti Tom e Sam (Sean Biggerstaff e Douglas Murphy), preadolescenti ansiosi di una giovinezza più libera, alle vecchie Lily e Chloe (Sheila Red e Sandra Voe), golose e infallibili frequentatrici di funerali. Il tutto drammaturgicamente stilizzato, già nei nomi, in quadretti di sapore beckettiano: dialoghi taglienti e dolorosi, autentici e assurdi.