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Tibet chiuso agli stranieri, si radicalizza la protesta

Creato il 08 giugno 2012 da Cren

Tibet chiuso agli stranieri, si radicalizza la protestaNei giorni scorsi ancora 3 tibetani auto-immolati (27 maggio); un serie di morti impressionanti (38) che dà il senso di una grande disperazione. Il suicidio è l’estrema rinuncia alla speranza, al futuro,  sull’altopiano come altrove. E’ il mese del Saga Dawa in cui si celebrano i tre passaggi fondamentali della vita di Siddhartha Gautama, la nascita, l’illuminazione e la rinuncia al corpo materiale. Nel Tibet antico erano giorni di festa, di pic-nic, di canti, di riunioni famigliari, danze rituali, preghiere e offerte. I grandi mandali venivano esposti nei monasteri, la gente festeggiava l’inizio della stagione calda per tutto il mese lunare di –maggio-giugno. Per tutto il mese il governo cinese ha chiuso il Tibet agli stranieri, forse si riapre a luglio. Troppi morti, e proteste, ora anche a Lhasa dopo Qinghai, Sichuan, and Gansu. I suicidi in Tibet sono un evento drammatico, un segnale estremo di soffocamento e di convinzione che niente potrà mutare. Molti tibetani sono esclusi dallo sviluppo economico, Lhasa trasformata in una città di karaoke e di turismo di massa, l’identità di un popolo persa. L’amico tibetano Tsering mi manda questo suo articolo (scritto a fine aprile) in cui dà la sua lettura, politica più che religiosa, su quanto sta accedendo nel suo paese dove, a suo parere, la prosteta si radicalizza.

Le prime auto-immolazioni iniziarono nel 2009 quando un il Monaco Tapey del monastero di Kirti nel Sichuan e sono continuate fino a pochi giorni fa con la morte di due giovani, per la prima volta, a Lhasa. Sono 39 i tibetani che hanno scelto questa forma estrema di protesta.  A me sembra che, malgrado la dura repressione del governo cinese, gli arresti, la chiusura del Tibet agli stranieri, e l’indifferenza della politica internazionale, qualcosa sta muovendosi in Tibet.

Queste proteste estreme ed orribili indicano alcune cose: la pazienza del tibetani sta finendo, il movimento per la libertà sta radicalizzandosi e sono i tibetani che vivono nel paese, più che il governo in esilio, ha guidare la nuova protesta. Non penso che sia predominante il fattore religioso in questi estremi sacrifici, come hanno scritto alcuni, pur essendo in gran parte monaci e monache ma quello politico. Le comunità monastiche in Tibet, nella storia, sono quelle che hanno avuto potere politico e hanno guidato la nazione. Se immolarsi ha un significato religioso questo risiede nel concetto di Lu ski Chonme Phul wa (offrire il proprio corpo alle fiamme). Trasformandosi in torce umane, questi coraggiosi, accendono una luce sulla sofferenza dell’intera popolazione tibetana sottoposta alla tirannia cinese, danno a questa sofferenza una visibile e viscerale manifestazione.

Questi sacrifici portano la resistenza a un nuovo livello. I dissidenti sono arrestati, chi scrive e fa dimostrazioni sono sotto controllo della polizia. Al contrario chi s’immola ha pieno controllo sul proprio corpo e sulla sua esistenza, un estrema manifestazione di resistenza a chi lo opprime. Più che motivi religiosi, i suicidi sembrano dovuti alla pura rabbia contro il governo Cinese, per la sua persecuzione della fede buddhista, sicuramente, ma anche per la complessiva oppressione dello spirito tibetano. Dal 1994 iniziò la campagna di rieducazione che richiese ai monaci di denunciare come contro-rivoluzionario e separatista il Dalai Lama e di accettare Gyaltse Norbu come 11° Panchem Lama in opposizione a quello scelto dal Dalai Lama (Gedun Choekyi Nyima, poi rapito e scomparso nel 1995 a sei anni). E la campagna, in forme diverse, continua ed è diretta a spezzare la cultura tibetana nel suo complesso (di cui il buddhismo è parte) e l’identità di un popolo.

La posizione del governo cinese, confermata negli anni, sembra indicare che l’approccio della Via di Mezzo (autonomia culturale in cambio della rinuncia all’indipendenza) seguita dal Governo in esilio sia fallito. Attendere, per i monaci suicidi, non è più possibile. Infatti, il numero dei monaci che hanno scelto l’estremo sacrificio è cresciuto una settimana dopo che Lobsang Sangay è diventato primo ministro del Governo in esilio nell’aprile 2011, dopo il ritiro politico del Dalai Lama e la riconferma,  più debole, della stessa politica.  La prima auto-immolazione avvennne nel febbraio 2009, la seconda nel 2011 e la terza dopo una settimana. Da allora queste estreme proteste sono diventate quasi mensili e, spesso, accompagnate da forti manifestazioni con vittime come a Ngaba e Kartze. Prima nelle regioni del Kham, Amdo, Sichuan e, negli ultimi giorni, anche a Lhasa, presso il sacro tempio dello Jokhang dove scoppiò rivolta nel 1987.

La rivolta diede visibilità al Tibet, favorì l’attività del Dalai Lama a livello internazionale per chiedere il Five Point Peace Plan e per proseguire la ricerca di un accordo con il governo cinese. Ma, di fatto, risposte positive non arrivarono da Pechino. Anzi, la repressione continuò, e nel 2008 scoppiò la rivolta dei monaci del monastero di Drepung a Lhasa che fu la più vigorosa e s’estese in tutto l’altipiano, coinvolgendo i tibetani della diaspora in Nepal e in India. La concomitanza con le Olimpiadi diede visibilità e nuove speranze al movimento tibetano ma la repressione fu durissima all’interno del paese.

Ma alla fine, niente cambiò: la speranza di un intervento internazionale ancora una volta disillusa, il ruolo del governo in esilio e la sua opera di mediazione e d’intervento esaurita e il silenzio e la censura cinese stese sull’altopiano. Contro questa situazione s’inserisce il suicidio del giovane (27 anni) Jamphel Yeshi a Dheli appena arrivato dal Tibet, durante le manifestazioni contro la visita in India del primo ministro cinese Hu Jintao nello scorso marzo. Mentre la Cina ha reso le proteste continue in Tibet quasi invisibili, l’immagine di Yampel in fiamme ha fatto il giro del mondo, ha dato un volto alle decine di monaci immolati, ha radicalizzato la protesta. Non è un caso che il luogo in cui si è dato alle fiamme Jamphel è lo stesso che vide il primo estremo sacrificio di un tibetano, Thupten Ngodup, nel 1998. Segnali che sembrano dire che se nulla cambia sull’altopiano, la resistenza passiva e attiva può aumentare.


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