di Alberto Fasulo
con Branko Zavrsan
genere, drammatico
Italia, 2013
durata, 85'
Dopo aver visto i tre film italiani in concorso sorge spontaneo
chiedersi se la scrittura nel cinema nostrano conti ancora qualcosa o se
il tutto dipenda solo da una questione di stile e di tecnica. In questo
senso il festival di Roma ha offerto molti spunti di riflessione,
proponendo gli antipodi di queste possibilità con gli eccessi ed il
parossismo citazionistico di "Take Five" diretto da Guido , messi a
confronto con il rigore e l'essenzialità del cosiddetto cinema del reale
a cui "I corpi estranei" di Mirko Locatelli e sopratutto " Tir" di
Alberto Fasulo appartengono di diritto. Il film di Fasulo in particolare
rappresenta un esempio paradigmatico perché individua la tendenza delle
nuove generazione di registi italiani di inserire pratiche ed estetiche
del documentario nel cinema di finzione. "Tir" e' infatti il frutto di
una lunga ed accurata ricerca sul campo poi confluita in un film in cui
la supremazia della parola e della sceneggiatura cedono il passo al
tessuto visuale fatto di immagini rubate al quotidiano ed a una
narrazione ed a un montaggio frammentato, a cui è devoluto il compito di
produrre il senso dell'opera. "Tir" ci porta a bordo di un autotreno
commerciale e lungo le strade di un paesaggio scarnificato ed anonimo
per vicissitudini di Branko, camionista slavo spinto in Italia dalla
possibilità di guadagnare un salario che gli consente di non dover
vivere alla giornata. Durante i vari trasferimenti conosciamo qualcosa
di lui e della sua famiglia attraverso le telefonate con la moglie,
ansiosa di riaverlo a casa. Il resto invece, scandito dalle varie tappe
delle consegne a domicilio appartiene alla routine di un lavoro che
logora e rende alieni. Presentato con l'etichetta di documentario, "Tir"
è in realtà un film a soggetto interpretato da un attore (Branco
Zavrsan) professionista, e raccontato con una storia che pur derivando
da consapevolezze realmente vissute e' prima di tutto la conseguenza di
una messinscena del reale elaborata prima di iniziare a girare. Ma
questo poco importa perché sul versante della credibilità "Tir" non
fatica a competere con la "vita in diretta" registrata nei documentari.
Il punto risiede invece nel constatare in quale misura il film riesca ad
imprimersi nella memoria delle nostre coscienze. Girato con l'intento
di rifuggire qualsiasi accenno di retorica, il film di Fasulo si regge
sulla capacità di restituire la dimensione interiore del protagonista
partendo dalla condivisione delle sua esperienza, e dalla ricognizione
dell'Ma il problema di "Tir" risiede in una drammaturgia che lasciando fuori campo lo strappo e la lacerazioni di una scelta esistenziale difficile (da una telefonata apprendiamo che Branko è un ex insegnante costretto a lasciare un lavoro amato ma scarsamente remunerativo ) sceglie di affidarsi a sottili scarti emozionali che il film affida a dettagli apparentemente risibili eppure forieri di impennnate emotive come la felicità conseguente ad una doccia effettua dopo cinque giorni di abluzioni parziali, o al contrario la freddezza derivata da rapporti umani spersonalizzati come quelli di Branko con i propri referenti lavorativi, non a caso restituiti da immagini incapaci di contenerne l'intera figura. Se la dignità di un uomo costretto a sacrificare le proprie ambizioni per un bene superiore è restituita con efficace autenticità, a non tornare è un'urgenza che appare troppo debole rispetto alla qualità dell'impianto formale. E' come se Fasulo per tenere fede alla promessa d'autenticità che sta alla base del suo cinema si dimenticasse di fornirgli un'anima in grado di bilanciarne lo sguardo fenomenologico. Se "Take Five" nella forzatura degli snodi narrativi annullava la forza della sua spettacolarità, "Tir" non è da meno quando ammorbidendo slanci e caratterizzazione si avvicina ad una neutralità che non incide, ribadendo la necessità di ripartire da un cinema scritto prima che filmato.
(pubblicato su ondacinema.it)





