Piccoli drammi di una redazione di provincia.
In un articolo pubblicato qualche settimana fa veniva citato un tizio.
Il classico «figlio di», per intenderci.
Non è un ragazzino: deve avere un paio d’anni più di me.
Il collega autore del pezzo ha fatto un bel lavoro; peccato si sia dimenticato il titolo del tizio: Professore o Dottore o vattelapesca.
Ha scritto soltanto «il signor P».
Bene.
Il nostro professorone-dottorone, indignato per la dimenticanza, ha telefonato a mezzo mondo – direttore e articolista in primis – denunciando «mancanza di rispetto e mancanza di professionalità». Ha anche minacciato di togliere fondi per determinate attività culturali nelle quali siamo coinvolti, per quanto in suo potere. Perché certe dimenticanze non sono mica ammissibili, sapete, e vanno fatte pagare con un conto bello salato.
Il tutto perché – lo ripeto, affinché tutti possiamo capire bene la situazione - ci si è dimenticati di mettere il titolo prima del suo nome e cognome.
Le persone direttamente coinvolte hanno reagito come mi aspettavo: chiedendo solennemente scusa e promettendo che tale enorme dimenticanza non si ripeterà mai più.
Fossi stata al loro posto, avrei preso questo esserucolo per le orecchie e gli avrei insegnato cosa significa essere Dottori e cosa significa essere Signori.
Perché, evidentemente, lui non è né l’uno né l’altro.
Ma io sono solo una manovale della parola.
Non ho voce in capitolo.
Sì, posso dire: «Caro Direttore, questa persona mi fa una tristezza infinita».
Ma non saranno le mie parole a cambiare il modo di ragionare della gente.