Arte. Letteratura. Poesia. Ritratto pittorico. Attorno a questi elementi, tutti facenti parte dello scibile creativo umano, ruota la trama del romanzo Todo modo (1974, letto nell’edizione Adelphi) di Leonardo Sciascia. Il libro, pubblicato in anni di piombo, di compromesso storico e di fermento ideologico e culturale dovuto alle debordanti spinte di protesta della fine del decennio precedente, è una sorta di giallo atipico, in cui la struttura del romanzo di genere si disperde, inevitabilmente si sfilaccia in sottotrame. Dal solitario eremo di Zafer si dipanano una serie di avvenimenti quasi illogici. Il pittore, don Gaetano, le forze di polizia e i politici in “ritiro spirituale” sono fronte e retro della stessa pagina, personaggi ognuno inscindibile dall’altro. La vicenda è totalmente influenzata dalla temperie culturale di quegli anni difficili, impossibili, per molti “anni senza futuro” simili a quelli che viviamo oggi. E di quella inquietudine mista ad un razionalismo perverso ed incoerente si nutrono queste anime svuotate dal potere, dagli intrighi e dalle macchinazioni sistemiche che hanno sempre afflitto la politica ed i giochi di forza mondiali. I senatori e gli imprenditori, gli industriali e i grandi affaristi che navigano a vista nell’empietà di quest’oceano di disonestà, sono un poco celato riferimento alla Democrazia Cristiana: cannibalico gigante dell’elefantiasi burocratico/politica di un cinquantennio di storia italiana, partito impietosamente messo alla berlina nelle pagine dello scrittore siciliano. La connivenza con la criminalità di gran parte della società e delle istituzioni prende vita e raffigura un pezzo di storia del bel paese. Tattiche spregevoli sono adoperate per i propri meschini fini da una classe dirigente che assomiglia sempre più ai naufraghi del quadro di Théodore Géricault, La zattera della Medusa. Opera puntualmente e preziosamente contestualizzata all’interno dello scritto sciasciano, assieme a molte altre: si spazia da Manetti a Redon, da Guttuso a Delvaux. La pittura diventa così emblematica mediatrice fra tentazione e ragione ritrovata. Il tutto è percorso da una vena sarcastica mortuaria ed indomita. Il buio dell’abisso è accostato alla luce, in un “gioco di contrasti” spesso riscontrato nell’opera del Nostro.
Se il libro rappresenta bene questo groviglio di connessioni mentali ed empiriche fra la realtà così com’è e la sua copia rappresentata, il film di Elio Petri, Todo modo (1976), va persino oltre. Deformando la realtà nell’iperreale, concezione tanto cara a Pirandello, spinge le storture del potere in un bozzetto profondamente grottesco. Mantenendo alcuni personaggi, fra cui quello essenziale di Don Gaetano, e l’ambientazione agreste, il riflesso sfocato della materialità viene incanalato in un caleidoscopio di vicende, sentimenti e soggetti che proprio nel loro essere profondamente deviati dal vero rappresentano in modo così adeguato la loro autenticità. Archetipo di questo limbo terrestre diventa il personaggio del presidente (inquietante figura così speculare ad Aldo Moro) magistralmente interpretato da uno dei migliori attori di sempre, Gian Maria Volonté. E quale migliore contraltare, come interprete del “luciferino prete” di entrambe le storie, quella filmica e quella letteraria, se non un mostro sacro del cinema italiano quale fu Marcello Mastroianni? In questa dimensione ancora più votata all’autodistruzione di quella della pagina scritta, l’umanità si perde, si sgretola, si confonde e si dissolve. Sullo sfondo, un’epidemia mortale che confina questi aberranti uomini dalla indole bestiale veramente sull’orlo di un abisso durante il giorno del giudizio. Ma nessuna seconda venuta messianica salverà la “zattera” dall’inabissarsi. Con intuizione geniale, Elio Petri riuscì a costruire un film cruciale per il cinema politico italiano di quegli anni, purtroppo irripetibile, trovando nella natura del grottesco il miglior modo per esporre senza dubbio alcuno una società completamente abbandonata alla corruzione dilagante.