Un paio di settimane fa, Loredana Lipperini ha presentato i suoi libri (Ancora dalla parte delle bambine, Non è un paese per vecchie, Di mamma ce n’è più d’una, L’ho uccisa perché l’amavo – Falso!) qui a Berlino. Una serata arricchente, in cui Loredana ha raccontato a una platea italo-tedesca la (preoccupante) condizione della donna in Italia. Prima della presentazione, seduti in un bar di Mitte, Loredana mi ha concesso un’intervista. Si è parlato di letteratura, blog e questione femminile. Un onore ospitarla qui, tra le pagine di Scrittore Computazionale.
Guardando le classifiche dei blog più influenti, ci si accorge che Lipperatura, il tuo blog, è il primo tra i blog mono-autore, in competizione, però, con un’armata di riviste letterarie con decine di collaboratori (un fenomeno, quello dei blog multi-autore, molto italiano). Alcuni hanno parlato addirittura di “morte” del blog mono-autore. Che fine farà, secondo te?
Delle classifiche non me ne preoccupo molto. Ho aperto Lipperatura nel 2004 – siamo quindi vicino al decennale. L’ho aperto per un motivo molto semplice: per Einaudi avevo curato La notte dei blogger e mi sembrava sciocco essere fuori gara. Come diceva Umberto Eco, non puoi parlare del juke-box se non ci hai messo il gettone almeno una volta. E allora, mi son detta, mettiamo il gettone.
Dopo qualche mese ho capito che era ingenuo da parte mia pensare di poter riproporre ciò che scrivevo sulle pagine di Repubblica nel blog. Così ho cambiato taglio, ho fatto in modo che il blog assumesse quel tono diaristico con cui l’avevo concepito inizialmente. Perché in fondo Lipperatura non è un e-zine, non è un giornale online, è semplicemente il blog di Loredana Lipperini. In cui alterno discorsi sulla letteratura a discorsi di genere.
Credo che il motivo per cui sono piuttosto indifferente alle sorti del blog mono-autore è che a me non è mai interessato essere una blog-star, come si diceva negli anni zero. Non mi è mai interessato scalare le classifiche, mi interessava, piuttosto, avere un luogo dove poter discutere, in particolar modo in quello che Giuseppe Genna chiama il commentarium (anche Lipperatura è un’invenzione di Genna, mi chiamava Lipperatura via email!).
Ti stupisce il successo del tuo blog?
Un po’ sì. Perché non ho mai fatto molto per promuoverlo, a parte linkare ogni post su Twitter e su Facebook. Tutta qui la mia promozione.
Il tuo blog aiuta a far conoscere i tuoi libri, o sono i tuoi libri a far conoscere il tuo blog?
Direi piuttosto che il blog mi ha aiutata a scrivere i miei libri. In tutti i miei libri c’è un ringraziamento al commentarium, perché non avrei potuto scrivere né Ancora dalla parte delle bambine, né Non è un Paese per vecchie, né Di mamma ce n’è più d’una e neanche il libro scritto con Michela Murgia, L’ho uccisa perché l’amavo – Falso!, se non ci fossero stati gli interventi nel commentarium.
Riguardo a L’ho uccisa perché l’amavo – Falso!, c’è una bella storia da raccontare. Ho conosciuto un commentatore, un esperto di statistica, che contestava il modo in cui venivano date le cifre sul femminicidio. Gli ho scritto, siamo diventati amici e quando stavamo scrivendo il capitolo sulle statistiche con Michela Murgia, io gli ho detto ‘vuoi fare il revisore di questo capitolo?’. Lui ha fatto un lavoro straordinario e l’ho ringraziato in coda al libro. Anche per questa ragione il commentarium è per me molto prezioso.
La vita dello scrittore in questi tempi digitali si è parecchio complicata: pensa ai tweet, aggiorna la pagina su Facebook, ah, non dimenticare le immagini su Pinterest e torna a studiare per scrivere ogni giorno sul tuo blog. Ma dove lo trova il tempo uno scrittore per scriverci un bel romanzo?
Ewan Morrison sul Guardian quest’estate si è posto la stessa domanda. Lui si è divertito a confutare i guru della promozione dello scrittore. I guru dicevano – lo dicono tutt’ora – che tu dovresti impiegare l’80% del tuo tempo a promuoverti e il 20% a scrivere. Di questo 80% dovresti usare un 80% per parlare d’altro, non del tuo libro; per esempio delle cose che piacciono a coloro che frequentano i social, cioè, gatti e politica. Se vai a fare i conti del tempo che ti rimarrebbe per scrivere, ebbene, questo è diciotto giorni all’anno.
Considera un’altra cosa: come tu sai, Facebook non ti permette di essere in contatto con tutti i tuoi amici, ma soltanto con quelli che frequenti più spesso. Così rischi di parlare del tuo libro a tua madre, a tua sorella, al tuo ragazzo e ai tuoi amici di infanzia. E poi ci si lamenta che alle presentazioni arrivano solo in tre!
La promozione in rete è una faccenda delicata ed essere sui social network per promuoversi invece di scrivere non ha nessun senso.
Però “tutti” sostengono che l’autore debba avere un blog…
“Debba”? No, non credo. Se un autore ha voglia di avere un blog, dove raccontare il dietro le quinte di quello che scrive, dove interloquire con i suoi lettori, dove fare delle riflessioni sul mondo in cui si muove, bene: che apra un blog. Ma non è “obbligatorio”. Anche perché non credo, almeno allo stato attuale delle cose, che internet sia l’eldorado della scrittura.
Rimaniamo ancora sui blog. In un pamphlet autopubblicato, eFFe scrive che “i blog”, ma non necessariamente i blogger, sono i nuovi intellettuali. Ma perché un intellettuale oggi dovrebbe scrivere in un blog e non, per esempio, su una testata giornalistica?
Io non credo che i blog siano necessariamente i nuovi intellettuali. Come non credo che non lo siano. Il web è un mezzo come un altro: si può conquistare una certa autorevolezza scrivendo su un blog, ed è successo e succede sia negli USA che in Italia. Ci sono delle persone che sono dei punti di riferimento della rete e ci sono altre che sono dei punti di riferimento della carta. O che lo sono su entrambi i supporti.
Non vedi un trend del tipo “ci stiamo spostando verso i blog”?
Gli uffici stampa delle case editrici si stanno spostando verso i blog. Questo non è necessariamente un bene, non necessariamente un male. È un male nel momento in cui le case editrici sollecitano recensioni positive dalle blogger giovani, magari promettendo loro non soltanto libri, ma anche pubblicazioni dei propri romanzi presso la stessa casa editrice. Questo avviene, inutile negarlo. Per esempio, la famigerata ricerca dell’AIE a cui fa riferimento anche eFFe era sconcertante per pochezza: metteva fra gli influencer, blogger che, con tutto il rispetto, facevano i passacarte, e scrivevano bene di ogni libro.
In effetti, si vedono quasi solo recensioni positive e questo non può essere…
Può essere anche così. Ti faccio un esempio che riguarda me (che vale per la carta e per la rete): io non stronco. Se devo parlare di un libro parlo di un libro di cui ritengo valga la pena parlarne. E quindi ne parlo bene.
Lo facevo anche io quando scrivevo recensioni, ma perché non stronchiamo? Non dovrebbe essere altrettanto importante stroncare un libro?
Si pubblicano centinaia di titoli al giorno, i libri sono tantissimi. Preferisco indicare un libro su cui valga la pena spendere tempo e soldi, piuttosto che stroncare un libro. E poi qual è il motivo per cui si stronca un libro? Non prendiamoci in giro: gli stroncatori molto spesso, a meno che non si tratti di stroncatori accademici, lo fanno anche per ottenere una certa visibilità. A me quel tipo di visibilità non interessa.
In ogni caso, per tornare al discorso delle blogger, non tutte le giovani blogger scrivono solo recensioni positive. Ti faccio un paio di esempi: una delle blogger (che è stata anche in polemica con eFFe e secondo me aveva le sue ragioni), Dusty pages in wonderland, è una blogger che stronca ed è stata molto critica nei confronti delle altre blogger; c’è un altro gruppo di ragazze, giovanissime, che scrive su Diario di pensieri persi e che ha anche fondato una rivista letteraria che si chiama Speechless, una rivista che ha avuto un milione di pagine viste; ecco, queste blogger stroncano.
Qualche tempo fa sono stato alla Leipziger Buchmesse, dove ho incontrato l’editore tedesco di Zagreb e la traduttrice. Parlando con alcuni degli addetti ai lavori tedeschi, mi è stato chiesto: “perché la letteratura italiana contemporanea è così noiosa?”. Cosa ne pensi tu che di libri appena sfornati ne parli (quasi) tutti i giorni a Fahrenheit?
Diciamo che forse la letteratura italiana che è ritenuta degna di esportazione è spesso ombelicale. Ma ci sono scrittrici come Michela Murgia, scrittori come Wu Ming… magari qualcuno dirà: ‘la Lipperini cita gli amichetti suoi!’. Li stimo e dunque sono miei amici, non viceversa. Ma non sono i soli, te ne posso citare molti altri, naturalmente. Ci sono degli esordi importanti, come quello di Eleonora C. Caruso, Comunque vada non importa o Francesco Targhetta, Perciò veniamo bene nelle fotografie… insomma, a me non sembra affatto che questa sia letteratura noiosa, anzi è una letteratura che ha una sua diversità e una sua potenza.
Questa sera qui a Berlino presenti la tua trilogia: Ancora dalla parte delle bambine, Non è un paese per vecchie, Di mamma ce n’è più d’una. Il filo rosso di queste opere è la donna, da quando è bambina, fino a quando diventa una “vecchia”. Ti chiedo: com’è possibile che in un Paese che si dice civilizzato come l’Italia, nel 2013, sia la condizione della donna ancora un argomento così attuale? È un po’ sconcertante, no?
È molto sconcertante. Quando ho cominciato a scrivere Ancora dalla parte delle bambine, ormai sette anni fa, sono stata io per prima a meravigliarmi, mi dicevo: ‘ma no, i numeri sono davvero questi? Quello che accade intorno a noi è davvero questo?’. Negli anni, le cose sono migliorate, ma non sono cambiate così profondamente.
Ti faccio un esempio, è successo proprio ieri: a seguito delle dichiarazioni della Presidente della Camera, Laura Boldrini, c’è stata una chiusura a riccio attorno alla libertà della rete e pochissimi, quasi nessuno, ha parlato del vero problema. Un atteggiamento sessista della rete esiste. Se non c’è una presa d’atto di questo, se ancora sulle bacheche Facebook di coltissimi intellettuali dobbiamo vedere commenti all’elezione di una scrittrice all’assessore alla cultura del tipo ‘Oh mio Dio quella piena di rughe’ (detta da un bizantinista e non da un ultrà della curva sud), evidentemente abbiamo un problema.
Se ne parlava qualche giorno fa qui su Scrittore Computazionale: vivere all’estero o viaggiare con la giusta attitudine è un modo unico per avere uno sguardo più obiettivo sul proprio Paese. Ecco, come vedi la nostra Italia da qui, da Berlino?
Ogni volta che vado all’estero – mi è capitato qualche mese fa a Stoccolma, mi sta capitando ora che sono a Berlino – e poi ritorno in Italia, mi viene un po’ di magone. Perché delle cose che dovrebbero essere date per superatissime, in realtà non lo sono. Quando hai uno sguardo da fuori, te ne rendi conto con maggior nitore.
Per esempio?
Te ne rendi conto dalla vita quotidiana, dai servizi, dal welfare, dalla considerazione che riguarda le donne, per esempio, ma anche dalla considerazione dei libri e degli scrittori. In Italia si ha la sensazione di rientrare in un piccolo, piccolissimo pollaio dove ci si becca l’uno con l’altro con disperazione. Fuori ci si becca ugualmente, però gli orizzonti sono vagamente più ampi. Questa è la mia sensazione.
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