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Tokyo . Sora. Regia: Ishikawa Hiroshi. Soggetto e sceneggiatura: Ishikawa Hiroshi. Fotografia: Ato Shoichi, Onodera Yukihiro. Montaggio: Ishikawa Hiroshi. Musiche: Kanno Yoko. Interpreti e personaggi: Itaya Yuka (Yoko), Igawa Haruka (Yuki), Nakamura Ayano, Takagi Ikuno, Sun Cheng-Hwa, Honjo Manami. Produzione: Ishikawa Hiroshi, Kishino Kazuo, Nagamatsu Akira per Nikkatsu Corporation. Distribuzione: Nikkatsu Corporation. Durata: 127'. Uscita nelle sale giapponesi: 26 ottobre 2002.
Punteggio ★★★
In una metropoli algida e sconfortante si intrecciano i destini di donne differenti. Un’immigrata cinese, una giovane pittrice, una ragazza immagine che vorrebbe recitare, una talentuosa scrittrice sull’orlo di una crisi creativa e una riservata assistente di un salone di bellezza. Per nessuna di loro la vita e semplice, rivelandosi ogni giorno colma d’ingratitudine e indifferenza. Parte di un rapporto di coppia da cui non trae alcuna emozione, la giovane pittrice rimane infatuata dalle forme della sua musa, a sua volta interessata ad un uomo che non le concede la minima attenzione. L’aspirante attrice si presta ad umilianti provini da cui non ottiene nulla, accettando un deludente impiego di vendita promozionale su strada. Yoko e Yuki, infine, condividono la stessa sorte, entrambe impossibilitate a perseguire i propri desideri, per sbarcare il lunario indossano lingerie in un locale per soli uomini. Le loro esistenze si sfiorano e lentamente si sovrappongono, riversando l’una nell’altra le proprie difficoltà: timori e ambizioni si intersecano sotto un cielo plumbeo che di rado schiarisce, rivelando un azzurro luminoso quanto insensibile e distante.
Dal suo primo lungometraggio Ishikawa opta per una scrittura minimalista ed essenziale facendo della frammentazione narrativa e della prossemica un metodo per raccontare l’animo umano e le sue tribolazioni. Con tono asciutto e impietoso, osserva il lento evolversi delle esistenze delle sue protagoniste tessendo tra loro legami evanescenti: una gestualità codificata e rituale con la quale rapportarsi ed affrontare il mondo e le sue insidie. Silenti, composte, raccolte nella loro solitudine inviolabile le protagoniste di Tokyo.Sora sono donne ferite, fragili ed al contempo pronte ad impegnarsi per il prossimo nel disperato tentativo di affrancarsi della loro condizione emarginante. Donne divise, incapaci di pervenire ad una forma compiuta sopperendo alle lacune della loro personalità, indossatrici di maschere che le consentono di ritagliarsi ruoli e identità differenti. Un tratto che le accomuna tutte, indistintamente: chi si prepara ad interpretare un ruolo per il quale è un po’ troppo cresciuta, chi simula conoscenze e interessi per attrarre attenzioni, chi si costringe ad una relazione mentendo sul proprio aspetto o chi ancora sceglie di condurre una duplice vita per aspirare ai propri desideri.
Ishikawa osserva le sue figure femminili a distanza e si avvicina con discrezione, ne testimonia dialoghi che abbandonano la recitazione a favore di una presa diretta, casuale, ne ritaglia le sagome in campo lungo, marginalizzando i loro corpi, relazionandoli strettamente con l’ambiente sul quale si stagliano. Come nei provini dell’aspirante attrice, nella posa dell’immigrata cinese, nei contesti urbani disabitati che assorbono Yuki al loro interno, si estendono ampi ambienti vuoti, attraversati soltanto da uno sguardo umano che conduce altrove, in un mondo che è interiorità (un’intimità sofferta, che chiede aiuto e sostegno) e fisicità (edifici, mura di cemento, stanze coercitive). La regia carica ogni gesto, addensa le attese, rifiuta i raccordi (non dobbiamo vedere, dobbiamo principalmente sentire), raffigurando luoghi che si estendono intorno alle protagoniste, componendo spazi vuoti del quadro dai quali nasce la spinta, la tendenza al cambiamento, costringendo a patti con le proprie emozioni e le proprie paure. Le azioni del quotidiano si ripetono in modo dilatato, il tempo del discorso non coincide con quello della storia: mangiare, leggere, scrivere, lavorare, sono gesti abituali che paiono estendersi all’infinito, componenti di una condizione abituale ed iniqua da cui è impossibile esimersi.
Nelle vicende femminili si assapora una perenne sconfitta, un senso di perdita estenuante a cui si alternano momenti di distensione rari e sfuggenti: una chiacchierata tra amiche, una bevuta in cui dimenticare se stesse, una corsa a perdifiato per sentirsi vive. Sebbene la forza di volontà e il desiderio di non arrendersi mantengano vivo lo spirito delle protagoniste, a tanti sforzi non segue mai un vero senso di appagamento e quando le scelte compiute avvicinano alla redenzione, Ishikawa ci trascina lontano, tenendoci in disparte, rifiutando di mostrare ciò che ha promesso e fatto attendere. L’interesse non è su ciò che accade ma sul riflesso emotivo generato dall’evolversi dello stesso avvenimento. Appena ne prendiamo coscienza un elemento si impone ad attenuare la fruibilità di una scena, una vetrata, un brusio di fondo, il respiro opprimente della metropoli saturano l’immagine, permettendoci di osservare limitatamente le effusioni tra due innamorati, il confronto tra Yoko e il suo giovane editore, lo sconforto di Yuki e l’inafferrabilità del suo dolore. Impietoso e sovrastante, il cielo di Tokyo diviene elemento collante e di condivisione di tanto patimento. La regia ne richiama le sue componenti anche in simbolici passaggi in interni, dalla copertina del libro che finge di leggere la donna cinese al pallido azzurro dell’acqua che ricopre il corpo di Yoko, distesa all’interno della sua vasca da bagno, passando attraverso quello spazio vuoto che si impone nelle articolazioni dei muri e delle pareti, premendo i soggetti ai margini dell’inquadratura. L’autore insinua tra le protagoniste interdipendenze sottili (il desiderio di essere fisicamente diverse, raccontare il proprio dramma nelle vicissitudini dell’altro, scoprire affinità nel prossimo e tentare disperatamente di ribellarsi al disagio) attraverso una condizione di infelicità condivisa, sulla quale incombe un etere mutevole, talvolta striato da una densa coltre di nubi che ne adombra la limpidezza (quell’azzurro evocativo, pacifico ma anche glaciale, distaccato) rinnovata metafora di esistenze tormentate, prive di ristoro e conciliazione.
Un esordio sentito, caratterizzato da uno stile personale (il piano sequenza, il campo lungo e l’attenzione alla profondità, il raccordo di sguardo negato, l’immobilità del piano e del soggetto) che richiede una dedizione paziente, sviluppando una narrazione discontinua, dove il climax di un segmento e il temporaneo abbandono di un personaggio sono sovente posti in giustapposizione, seguiti da intrecci differenti e successivamente recuperati. Sintomi di “incompiutezza” che generano la necessità di un completamento, un ritrovarsi, per scoprire se stessi, condividere il dolore, acquisire la forza e la volontà di apprezzare la gioia e la bellezza racchiuse nella vita, prima che lo squarcio di luce si richiuda su se stesso (ancora il cielo, lo spazio aperto e il vuoto, un banco di nuvole che ricopre il sole), portando con sé una tragica resa. Ed in risposta a tanta introspettiva sofferenza cosa rimane? Non molto sembra suggerire l’autore (avvinghiato ad un tenace pessimismo, chiave di lettura e limite di fronte al quale si consumano le argomentazioni), se non un’amara consapevolezza che il dramma della quotidianità è condizione spesso insospettabile, al punto che il fardello della vita può diventare insostenibile. [Luca Calderini]
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