Questa storia inizia con il più classico degli incipit: c’era una volta. C’era una volta Rainbow Six. Ve lo ricordate? Una serie splendida, che ha fatto breccia (sì, il sottile riferimento è voluto) nel cuore di molti appassionati videogiocatori grazie ad una filosofia di gioco tensiva e, per quanto mi riguarda, appassionante. Basata su un tema, peraltro, mai così tristemente attuale. Erano altri tempi. L’iconica squadra internazionale antiterrorismo ha fatto parte del nostro background videoludico sin dal lontanissimo 1998, anno in cui incontrammo per la prima volta la serie. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti, non solo per la stessa, ma anche per l’intero settore. Da esperienze in solitaria si è scivolati sempre più verso una deriva multigiocatore, in cui cooperazione e interazione con altri esseri umani (giocatori, come noi, anche se si tende a dimenticarlo) sono diventate le basi su cui poggiare il peso un’intera produzione, solitamente multimilionaria. Ciò non è necessariamente un male, intendiamoci. Basare tutto sul multiplayer, però, pone un elevato grado di difficoltà per gli sviluppatori, i quali devono fare i conti con una moltitudine di variabili ed imprevisti che potenzialmente possono trasformare l’esperienza di gioco in un supplizio più che in un divertimento. Bilanciamento, stabilità dei server, offerta complessiva (Season Pass in primis) e simili sono solo alcune delle sfide a cui far fronte per soddisfare il consumatore finale. Rainbow Six: Siege, adagiandosi esclusivamente sull’offerta multigiocatore, non è da meno. L’ultima fatica firmata da Ubisoft appartiene alla categoria dei titoli che divertono ma, purtroppo, non riescono ad entusiasmare. Insomma, ciò che poteva essere e che non è stato. Siege arriva col fiato corto alla fatidica prova del nove.
BREACH & CLEAR
L’idea, di fondo, si presenta intrigante: rivisitare in chiave moderna il concept e le meccaniche ibride che hanno da sempre caratterizzato la serie calandole, al contempo, in un contesto in cui l’interazione con gli altri giocatori diventa parte essenziale dell’esperienza di gioco. Recuperare un ostaggio o disinnescare ordigni dopo aver studiato la mappa ed aver fatto breccia nelle difese nemiche sono dinamiche in grado di gratificare il giocatore e che, nel momento attuale, non è possibile trovare nella maggior parte degli sparatutto moderni. Va da sé che l’azzardo, sotto questo punto di vista, è stato davvero grande. È fuor di dubbio che Rainbow Six: Siege riesca a spiccare con decisione sulla selva indistinta di FPS, giunti sugli scaffali soprattutto nell’ultimo periodo. Tutto ciò, però, non basta per poter far entrare il titolo, di diritto, nella hall of fame videoludica. Le variabili e gli imprevisti, cui facevamo cenno poco fa, e relativi allo sviluppo di un titolo “multiplayer oriented”, sono emersi con tutta la loro forza nel prodotto finale. Una moltitudine di domande e dubbi si sono affastellate man mano che le ore di gioco si accumulavano, toccando i più disparati aspetti del titolo. Vediamo, dunque, di fare un po’ di chiarezza, partendo dal generale per giungere al particolare. Rainbow Six: Siege ci presenta, essenzialmente, tre modalità distinte le quali corrono però su binari paralleli.
Da un lato troviamo le cosiddette Simulazioni, ovvero l’unica modalità affrontabile in singolo che si propone come un enorme tutorial “pre-pvp” in cui far pratica e prendere confidenza con gli operatori appartenenti alle più note unità speciali che si andranno ad utilizzare durante i match online. Le Simulazioni – prive di qualsivoglia trama e totalmente slegate tra loro – si compongono di dieci scenari, ben distinti per tipologia di scenario, obiettivi ed operatore sul campo. Ciò consente al giocatore di prendere dimestichezza con la planimetria delle mappe e le abilità di ogni soldato, in modo da non rimanere scioccati una volta gettati nella poco permissiva mischia on-line. Le Simulazioni, inoltre, prevedono obiettivi secondari facoltativi che, se soddisfatti, permettono di guadagnare punti Fama, ovvero la valuta di gioco, utile per sbloccare ulteriori classi ed equipaggiamento. Una buona propedeuticità per quello che attende il giocatore nel momento in cui quest’ultimo sceglierà di muovere il fatidico passo verso l’interazione con altri giocatori. Però non è tutto oro ciò che luccica.
A fronte della apprezzabile idea di partenza, gli scenari single player soffrono di alcuni problemi su cui non è proprio possibile sorvolare. In primis, l’intelligenza artificiale. Quest’ultima non sempre si è dimostrata all’altezza della situazione, rendendosi protagonista di comportamenti decisamente poco realistici, contrastanti tra loro e (in alcuni casi) azioni da “terrorista della domenica”, con pattern sconsiderati e suicidi. Immaginiamo che, per un guerrigliero, immolarsi non rappresenta certo un problema, ma forse tale routine comportamentale non sia stata implementata volontariamente dagli sviluppatori. Dall’altro lato, invece, quando i terroristi si riprendono dal blackout mentale, diventano delle vere e proprie macchine da guerra sovrumane, capaci di colpi infallibili e dotati di una vista a raggi X. I difetti dell’IA affliggono anche la modalità cooperativa denominata Caccia ai Terroristi, rendendo l’esperienza meno soddisfacente rispetto a quanto pronosticato inizialmente. In questa particolare modalità cinque giocatori si ritrovano ad affrontare – ovviamente in inferiorità numerica – l’IA nemica nel tentativo di portare a termine gli obiettivi prefissati, in modo molto simile a quanto accade nei match PVP. Fortunatamente, sopratutto a livelli di difficoltà superiori, Caccia ai Terroristi risulta abbastanza divertente ed impegnativa. Ciò non tanto per il design degli ambienti, o peggio, per la già citata deficienza nemica, ma principalmente per merito delle dinamiche imprevedibili nascenti dalla collaborazione tra più giocatori. Le due modalità, però, sono in grado di intrattenere il giocatore medio per una manciata di ore, prima che la sua attenzione sia dirottata verso un prodotto più accattivante.
SOTTO ASSEDIO
Inutile dire che il cuore pulsante dell’offerta proposta da Ubisoft si risolve, ovviamente, nel comparto competitivo online in cui due squadre (che si alterneranno nell’attacco o in difesa), composte da un massimo di cinque giocatori ciascuna, si affrontano in scontri dagli obiettivi più disparati (come disinnescare uno o più ordigni, procedere all’estrazione di un ostaggio, difendere un determinato punto della mappa). Sulla carta, come dicevamo poco fa, il concept appare quanto mai intrigante. L’ansia dei preparativi da ambo le parti, la scalpitante attesa di entrare in azione, l’attenzione posta per non segnalare la propria presenza, la voglia di sfruttare ogni copertura ed espediente per portare a termine la missione da veri professionisti è ciò che ci si aspetta da un titolo tattico. Siege punta esattamente ad offrirci un assaggio di tutto ciò. Il problema è che rimane, appunto, un semplice assaggio, in quanto la maggior parte delle partite finirà prima del tempo a causa dell’eliminazione totale di uno o dell’altro gruppo. Infatti, se non siete dotati di un gruppo di amici affiatati, generalmente le dinamiche dei match – a prescindere che il team del giocatore sia in attacco o in difesa – tendono a seguire i canoni di un qualsiasi sparatutto, in pieno stile “search and kill”, andando a minare alla radice un’esperienza proposta con ben altre ambizioni. Non solo. Non esiste nessuna penalità per chi abbandona la partita anzitempo e, soprattutto, non è possibile segnalare (se non votandone l’espulsione dal match) i giocatori che si rendono protagonisti di comportamenti scorretti. Purtroppo è capitato più di una volta di far squadra con buontemponi che si divertivano a sparare ai compagni, uccidendoli di proposito.
L’elemento tattico, però, c’è e – al di là delle ambientazioni distruttibili di cui parleremo – costituisce la fase pre-partita. In questa fase preparatoria, attaccanti e difensori hanno trenta secondi per prepararsi allo scontro, ovviamente in modi che differiscono in base al ruolo ricoperto. Da un lato, gli attaccanti controllano un drone terrestre, per effettuare una ricognizione ed individuare gli obiettivi onde evitare l’enorme rischio di un assalto alla cieca; mentre al contrario i difensori dovranno provvedere a rendere impenetrabile il sito installando barricate, trappole, rinforzando i muri e quant’altro possa rallentare il team avversario. Da questa fase iniziale emergono in modo evidente le peculiarità dei vari operatori. Questi sono venti, provenienti dai più disparati reparti antiterrorismo (GIGN, SAS, SPEZNATZ e così via) e divisi equamente tra classi di attaccanti e difensori, sbloccabili spendendo punti Fama. Ogni specialista può scegliere tra un limitatissimo range di armamenti e due gadget speciali legati essenzialmente al corpo d’appartenenza e alla specialità di ciascuno (demolitore, hacker, sniper, etc.). La personalizzazione, in questo senso, è davvero ridotta all’osso. Alcune classi, inoltre, risultano al momento molto più efficaci se comparate ad altre, grazie al loro equipaggiamento e alle loro abilità speciali. Questo può creare situazioni sbilanciate durante gli scontri. Per fortuna può esservi solo un determinato operatore per tipo sul campo. Vedremo se gli sviluppatori interverranno su tale aspetto.
SCONFITTA INGIUSTA
Dal punto di vista tecnico-stilistico Rainbow Six: Siege non riesce a graffiare. Il titolo fa la sua bella figura, se guardato con occhio compassato. Tanti piccoli, grandi, tentennamenti non gli permettono però di spiccare sui diretti concorrenti e metterci in condizione di gridare al proverbiale prodigio della tecnica. Intendiamoci, il comparto grafico, pur non potendolo definire granitico, non presenta vistose stonature. Al contrario, riesce a dare il meglio di sé grazie alle esplosioni (molto soddisfacenti) ed ai conseguenti effetti particellari, pregni di polvere e detriti. Anche la gestione della fisica da parte dell’engine riesce ad essere sempre precisa e realistica. Un aspetto, però, ci ha stupito più di tutti: la differenza tra quanto ostentato dagli sviluppatori nel corso dello sviluppo ed il risultato finale. Nonostante si goda di un buon grado di libertà nell’approccio tattico, le opzioni sono comunque molto limitate, rispetto a quanto inizialmente promesso. Gli ambienti, purtroppo, non sono totalmente distruttibili e “l’alleggerimento” nel design è palesemente percepibile ed appare evidente in ogni mappa. Ciò che è riuscito senza sbavature sembra esser stato il comparto audio, perfetto tanto per ciò che concerne il feedback sonoro delle armi, quanto riguardo ai rumori ambientali (rumori di passi, vetri in frantumi, etc.). Un pregio non da poco, per un titolo che pretende di proporre un’esperienza di gioco tattica.