Spesso, come accade durante gli addii, quando si muore, il tempo è bello. Il cielo, infatti, si può prendere gioco di colui che sta per compiere il grande salto, nascondendo le proprie nuvole marmoree, celando il suo animo carnico. Il sole splende e riscalda la pelle sotto cui scorrono vene rigonfie e un cuore che, seppur accelerato e reso pesante dalla consapevolezza, non cessa di pompare vita. L’uomo, anche il più coraggioso e saggio, può accettare la morte, ma non l’ora, il momento. Morire in qualunque istante, tranne quando bisogna. Se le mani son legate, come quelle di un condannato, è lo sguardo a tentare di aggrapparsi a qualcosa: un volto familiare, un segno. Qualcosa su cui imprimere noi stessi. Dal palco rialzato di una forca, poi, al di là dei volti curiosi pieni di malizia e compassione, si può vedere l’orizzonte con tutto quello con cui si sceglie di riempirlo. Ma forse il tempo, il cielo e il mondo sotto di esso, inevitabilmente, appariranno sempre belli a chi li sta per lasciare e forse la paura che più attanaglia è il non avere nulla con cui riempire quell’orizzonte. Perché il fatto che uno stia per morire non significa affatto che abbia vissuto. Sul patibolo a dondolare dinanzi al “morto che cammina” non è solo quel vuoto incorniciato da una corda spessa, ma è tutto quello che esso è stato e tutto quello che ha sognato di essere. Pronto a precipitare appena il patibolo lo risucchierà…
Se la caduta non procura al soggetto un arresto cardiaco, ad ucciderlo sarà la rottura delle ossa del collo, ma in alcuni casi bisogna aspettare la conseguente asfissia e contemporanea estroflessione dei bulbi oculari e della lingua. La caduta è di circa tre metri, ed era calcolata in modo da applicare una forza tale da fratturare la seconda, terza, quarta e quinta vertebra cervicale. In ogni caso tale forza risultava talvolta eccessiva, portando quindi alla decapitazione del soggetto, come nel noto caso di Tom “Black Jack” Ketchum nel Nuovo Messico nel 1901. A prescindere, più le gambe si dimenano e più lentamente sopraggiungerà il decesso. Thomas “Tom” Horn, Jr. probabilmente di queste nozioni era perfettamente al corrente e, stando a resoconti, morì sul colpo, appena la botola si aprì, come se alla sua carne fosse aggrappato il peso di essere già una leggenda. Horn non si dimenò, non urlò, ma di certo a dondolare inerme, ad un giorno dal suo 43mo compleanno, sotto il cielo invernale del Wyoming non era solo.
“Tom Horn, assurto a vera leggenda del West, è stato sicuramente una figura emblematica degli ultimi violenti anni della Frontiera. Era nato a Memphis, nel Missouri, il 21 Novembre del 1860. Il padre coltivava la terra e voleva fare di Tom un buon agricoltore Americano, ma il ragazzo imparò piuttosto bene a maneggiare le armi e dimostrò un’ottima mira col fucile. Dopo i litigi continui col padre abbandonò la sua casa per intraprendere, adolescente, una vita avventurosa ed errabonda nel west. Iniziò giovanissimo a lavorare per le ferrovie facendo il sorvegliante, poi a 17 anni fu reclutato dall’esercito come scout, buon conoscitore com’era degli Apache Chiricahua di cui aveva appreso il gergo. Conosceva bene lo spagnolo, lingua adottata da molti capi apache come Victorio, Mangas Coloradas.” (farwest.it) Esploratore, bounty-killer, agente investigativo per la nota Pinkerton Detective Agency, reduce delle guerre Apache, fu tra coloro che catturarono il guerriero Geronimo, pistolero durante la faida di Pleasent Valley (dove si dice abbia commesso omicidi su commissione per ambedue le fazioni), viaggiatore e cercatore d’oro.
L’estate del 1901, l’anno del suo arresto, Horn si trovava ad Iron Mountain, dove lavorava per il barone del bestiame, John C Coble. Ci finì dopo essere guarito dalla malaria, contratta risalendo a Cuba da Tampa, dove aveva rinunciato, per un breve periodo, alla sua attività da mercenario per prestare servizio durante la guerra ispano-americana. La vittima fu Willie Nickell, di quattordici anni, figlio di un noto allevatore locale. Horn fu arrestato per il delitto pochi giorni dopo. Durante il processo la prova principale contro di lui fu la sua discutibile confessione, estorta dallo sceriffo Joe Lefors, mentre Horn era completamente ubriaco. L’accusa fece a pezzi l’alcolico resoconto introducendo solo alcune parti, quindi distorcendo e pregiudicando ancor di più il senso delle sue parole. Inoltre, furono presentati due testimoni che, però, nonostante l’ammasso di fumo e parole, ed esattamente come avevano fatto le poche prove indiziare, hanno solo confermato che Horn si trovava nei pressi durante l’omicidio. A partire dal 10 Ottobre 1902, la parola passò alla giuria e un settimana dopo questa restituì un verdetto di colpevolezza. Horn fu condannato a morte per impiccagione. Gli avvocati della difesa presentarono una petizione alla Corte Suprema del Wyoming per un nuovo processo. La Corte Suprema confermò tuttavia la decisione della Corte Distrettuale e negò un nuovo processo. L’esecuzione avvenne il 20 novembre 1903 a Cheyenne.
La figura di Tom Horn, naturalmente, non poteva non attrare il magico mondo della celluloide. Cinque volte per l’esattezza. Il suo debutto avviene nel 1949 grazie a Kurt Neumann (noto per essere il regista de L’esperimento del dottor K, aka The fly, con Vincent Price) con il volto, forse troppo pulito ed elegante, anche se perfettamente in linea con l’epoca, di Barry Sullivan. I banditi della città fantasma è un melò, soporifero e tragico la cui storia ha poco a che vedere con le reali vicende di Horn ed in cui quest’ultimo è dipinto come un romantico fuorilegge, criminale e rubacuori. L’anno successivo toccherà a George Montgomery in Sfida alla legge (1950) diretto dall’artigiano per tutte le stagioni (televisive) Lesley Selander. Western tipico, senza macchia e senza lode, che si ricorda più per la splendida fotografia in Cinecolor che per altro. Stavolta Horn è un agente federale infiltrato, la cui missione è quella di recuperare 100.000 dollari da una banda criminale. Nel suo intento incontrerà la nota falsaria Dakota Lil (il titolo originale) interpretata da Marie Windsor con cui scoccherà l’amore. Negli anni a seguire sono molte le apparizioni di Horn nelle serie televisive western che hanno tanto caratterizzato gli anni cinquanta ma per ritrovarlo in un lungometraggio bisognerà aspettare il 1967 con I disertori di Fort Utah, a firma, di nuovo, di Selander. Un b-movie che, nonostante un vago accenno revisionistico nei confronti degli indiani, nasce già datatissimo. Un gruppo di disertori, capeggiati dal brutale Dayan, ha operato un massacro di donne e bambini pellerossa. Si riaccendono così le ostilità, finché non interviene Tom Horn (stavolta John Ireland). Inutile. Per avere un ritratto realistico o perlomeno solcato da qualche fatto storico bisognerà aspettare altri dieci anni circa, per Mr Horn (1979). Film televisivo (180’) da noi inedito e primo biopic ufficiale, vede l’unione tra tre giganti: l’attore, all’apice della fama, David Carradine (solo due anni prima era stato protagonista de L’uovo del serpente di Bergman), il regista cultissimo Jack Starret (In corsa con il diavolo) e lo sceneggiatore William Goldman, la cui filmografia è costellata di capolavori, tra cui il western Butch Cassidy.
Ironicamente, dopo essere stato sfruttato relativamente poco e mai realmente a pieno, escono in meno di due anni ben due pellicole biografiche; infatti, dopo il film televisivo di Starret esce il semplicemente intitolato Tom Horn (1980) di William Wiard. Il protagonista stavolta è Steve McQueen e mai scelta fu più azzeccata. Il vissuto spericolato e autodistruttivo, persino criminale, dell’attore americano si presta benissimo alla figura ambigua come quella del pistolero Horn. McQueen era Tom Horn, a prescindere. Il protagonista di Getaway e Papillon veniva da un periodo di stallo dovuto ad una lunga fase di abuso d’alcol e droghe, che lo portò ad allontanare chi gli stava intorno e infine ad entrare in una spirale di depressione e auto-alienazione . Quando iniziò le riprese di Tom Horn, McQueen sapeva già che stava morendo. Nel 1979, infatti, gli fu diagnosticato un mesotelioma, cioè un tumore della pleura associato tendenzialmente all’esposizione all’amianto. Sarà forse per questo che ogni primo piano del volto, solcato da profondi segni e rughe non dettate dall’età ma dal vissuto dell’attore, ogni smorfia e sorriso, sembra solcato da malinconica consapevolezza. McQueen, come forse era riuscito a fare solo nell’immenso Papillon, riesce davvero a rendere l’idea della precarietà del rapporto tra psiche e corpo. La fragilità e la forza.
Transfert? Può darsi, ma il cinema è l’arte della proiezione. Il rapporto spettatore e personaggio è paragonabile a quello di analista e analizzato, che a sua volta è paragonabile ad una storia d’amore, dove forze di attrazione e repulsione, empatia e psicodramma hanno modo di dispiegarsi. Tom Horn infatti è un film, soprattutto per chi ama McQueen, dato che solo chi lo ama e lo conosce vivrà il film come un testamento cinematografico (anche se l’ultima pellicola di McQueen è il successivo dimenticabile Il cacciatore di taglie (1981). Se costretti ad un analisi oggettiva del film, non si può negare che sia profondamente imperfetto. Nonostante la splendida fotografia di John Alonso, ruvida e vagamente “malickiana” nel suo essere elegantemente realistica, e uno stuolo di caratteristi memorabili, la sceneggiatura è debole, forse puntando troppo sulla sola presenza di McQueen. Il film fu accolto tiepidamente: il critico Morandini lo definì un “semi-western autunnale di atmosfera nostalgica, puntiglioso nell’ambientazione”. Secondo il famosissimo critico Leonard Maltin il film è “ben girato” anche se risulta, alla fine, un “noioso western sugli ultimi giorni di un cacciatore di taglie del Wyoming”. Che agli occhi di chi scrive pare una contradizione in termini.
La scena finale di Tom Horn è l’epitaffio ideale dell’ultima grande stagione del cinema western.
Per quanto riguarda il vero Horn, è ancora in discussione se abbia commesso l’omicidio. Alcuni storici credono nella sua innocenza, mentre altri sostengono che non si sarebbe reso conto che stava uccidendo un ragazzino. Secondo Chip Carlson, uno dei massimi esperti su Horn, non vi era alcuna prova reale che avesse commesso lui il delitto: “fu visto l’ultima volta nella zona il giorno prima dell’omicidio, la sua presunta confessione era priva di valore come prova, e non furono compiuti sforzi per indagare sul coinvolgimento di altri possibili sospetti. In sostanza, la reputazione di Horn e la sua storia lo avevano reso un facile bersaglio per l’accusa.” Nel 1993, la causa è stata riproposta in un “processo-prova” davanti ad una giuria non a conoscenza del caso, e Horn è stato assolto.
McQueen invece morì in una clinica, vicino al confine messicano, in seguito ad una serie di crisi cardiache, alle 15.45 del 7 novembre 1980, accanto all’ultima moglie e Sammy Mason, suo amico e istruttore. Il giorno prima aveva subito un delicatissimo intervento per la rimozione di un tumore allo stomaco. Venne cremato e le sue ceneri sono state sparse nell’Oceano Pacifico.
Eugenio Ercolani
La prossima settimana: Romantico avventuriero