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Tomboy

Creato il 06 maggio 2011 da Zaziefromparis
TomboyL’identità sessuale è un tema molto trattato, al cinema, ma in pochi hanno avuto il coraggio di esplorarlo dal punto di vista infantile. Lo fa un film uscito in questi giorni in Francia e che sembra aver stregato pubblico e critica: Tomboy (espressione inglese che significa “maschiaccio”), seconda prova di una giovane regista, Céline Sciamma, 30 anni, che già si era fatta conoscere al grande pubblico con un film che parlava di adolescenza (Naissance des Pieuvres, che ora mi pento amaramente di aver perso alla sua uscita quattro anni fa). E’ la fine dell’estate, e una giovane famiglia francese si è appena trasferita in un nuovo appartamento alla periferia di Parigi. Papà, mamma visibilmente in cinta, una figlia piccola e quello che a tutti gli effetti sembra un giovane figlio: capelli corti, pantaloni, canottiera, lo osserviamo mentre il padre gli insegna un po’ per gioco a guidare... insomma, un ragazzino di 10 anni. E’ solo quando lo vediamo uscire dalla vasca dopo che ha fatto il bagno con la sorellina, che ci rendiamo conto che si tratta in realtà di una ragazzina e, contemporaneamente, sentiamo la voce della madre chiamare il suo nome: Laure! Il problema, a questo punto, è che lo spettatore lo ha già metabolizzato come bambino, e si fa una grandissima fatica a considerarlo di un altro sesso. Non siamo i soli ad avere questa difficoltà: la condividiamo con la protagonista. Quando Laure raggiunge in cortile dei ragazzini per giocare ed una di loro, Lise, le chiede: come ti chiami? La sua risposta, sicura, precisa, spiazzante, è: Michael. E’ cosi che inizia un percorso tutto in salita per Laure/Michael, che dovrà fare i conti con la sua decisione e le sue inevitabili conseguenze. Tomboy, vi assicuro, è un film straordinario. Il tema è delicato e complicato insieme, ed anche di una pesantezza infinita, ammettiamolo, ma la regista riesce in un piccolo miracolo, quello di raccontare la storia come se la vivessimo da dentro. Con l’inconsapevolezza e l’energia dell’infanzia, che trova un suo corrispettivo visivo nel calore e nella brillantezza dell’estate. Laure ci crede veramente, di poter sovvertire l’ordine prestabilito, e noi insieme a lei. Seguiamo con trepidazione i suoi tentativi coraggiosi e maldestri insieme di trasformarsi in un ragazzo e viviamo con ansia crescente il momento in cui, inevitabilmente, la vera vita prenderà il sopravvento (del resto, mancano solo pochi giorni all’inizio della scuola...). 
Tutto suona giusto in questo film girato velocemente (20 giorni di riprese in totale), con pochi mezzi, e pervaso da una luce speciale. Non so come la regista abbia potuto trovare un’attrice cosi giovane e talentuosa: Zoé Héran è spettacolare nella parte di Laure/Michael. La scena in cui si mette a giocare a calcio, si toglie la maglietta e sputa per terra come ha visto fare agli altri ragazzini, è un concentrato di bravura e tenerezza. Non è da meno la giovanissima Malonn Lévana nella parte della sorellina, una simpatica peste che si rivela a sorpresa un’incredibile ed abilissima complice della sorella/fratello. I genitori restano sullo sfondo ma sono fondamentali: Sophie Cattani nel ruolo della madre è estremamente vera e sensibile, e Mathieu Demy nel ruolo del padre (lui che è figlio di due mostri sacri come Jacques Demy e Agnès Varda!) è sobrio e disarmante di sincerità. 
Questo film ci pone di fronte a moltissime questioni, ma prima fra tutte la crudeltà della condizione di un essere umano che si sente in un modo ma è in un altro, costretto in un corpo che non gli appartiene. Il fatto che a soffrire sia una ragazzina di 10 anni, fa cadere di colpo tutte quelle barriere che di solito sorgono spontanee quando la persona coinvolta è un adulto. La sofferenza di Laure ci appare inumana, e si avrebbe voglia di credere, almeno per un attimo, che le cose per lei possano cambiare. 
Born this way... but for ever?

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