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“tommy”, opera rock dei the who

Creato il 23 maggio 2014 da Postpopuli @PostPopuli

 

di Leonardo Masi

“Tommy”, opera rock dei The Who

Il 23 maggio 1969 uscì in Gran Bretagna uno dei lavori più importanti nella storia del rock: Tommy dei The Who. A testimonianza di quanto questo progetto fosse ambizioso nei suoi propositi, ci sono le dichiarazioni dell’autore, risalenti a ben otto mesi prima dell’uscita del disco: “C’è un ragazzo sordo, muto e cieco che vede le cose come vibrazioni, che noi [il gruppo] traduciamo in musica. Questo è quello che vogliamo fare: creare quella sensazione per cui chi ascolta la musica può prendere coscienza del ragazzo e di quello che gli sta intorno, perché siamo noi a crearlo mentre suoniamo”.

La dichiarazione di Pete Townshend, chitarrista e mente dei The Who, è forse un po’ contorta, e anche la storia è in effetti poco lineare. Come giustamente notava il bassista John EntwhistleTommy in realtà è un’associazione di idee. Ma funziona incredibilmente. Prima di parlare della storia, dobbiamo notare un fatto: che un disco contenga una storia è una novità per l’epoca. In Sgt. Pepper dei Beatles c’era un filo conduttore, ma non una vera e propria narrazione. Townshend usa la parola “opera” nell’intervista citata del 1968, e in effetti si dice che questa è la prima “opera rock” della storia, con tanto di ouverture e leitmotiven. Non proprio la primissima, in verità: c’erano stati dei tentativi precedenti, ma qui siamo su altri livelli.

 

TOMMY OPERA ROCK 245x170 TOMMY, OPERA ROCK DEI THE WHO

I The Who (Wikipedia, foto di Jim Summaria)

La storia, dunque. Siamo nel 1921. Il Capitano Walker non ha fatto ritorno dalla guerra, lasciando incinta la moglie, che di lì a breve partorirà Tommy e troverà un nuovo compagno. Ma il padre di Tommy non è morto, e tornerà a riprendersi la moglie, uccidendo l’amante davanti al bambino. (Ammetto una cosa: non riesco a trovare nel testo di Townshend due elementi che sui vari siti internet vengono dati per scontati: che sia il padre a uccidere l’amante – nel film avviene il contrario – e che il bambino veda la scena da dietro a uno specchio). Fatto sta che il bambino viene talmente convinto dalle parole dei due adulti (“non hai visto, non hai sentito, non racconterai niente a nessuno”) che diventa cieco, sordo e muto. Inizia qui il suo calvario, fra il cugino che si diverte a torturarlo, lo zio che ne abusa sessualmente, la “regina dell’acido” che con i suoi metodi poco ortodossi cerca di guarirlo. Finché non si scopre che Tommy è un mago del flipper e diventa un campione ricco e famoso. Ora lo si può portare da uno specialista, la cui diagnosi è la seguente: lui sente, vede e può parlare, ma non c’è macchinario che possa rimuovere il suo blocco interiore. Così Tommy passa le giornate davanti a uno specchio, finché la madre infuriata non lo rompe, liberando così all’improvviso il figlio dal tremendo handicap. Tommy ora vede, sente, parla, è diventato una guida spirituale per le folle che lo idolatrano. Se volete seguirmi, dice, dovete chiudere occhi, bocca e orecchie e giocare a flipper. Ma la folla non lo accetta, si ribella e lo abbandona. A Tommy non resta che cantare la sua preghiera-lode, con la quale si chiude il disco.

Non c’è un libretto, le voci dei vari personaggi sono cantate quasi sempre da Roger Daltrey, e quindi forse non si tratta proprio di un’opera, quanto un “concept album” (nel 1992 è diventato anche un musical a Broadway). La versione cinematografica di Ken Russell (1975), geniale a mio avviso, da un lato cerca di dare una coerenza alla storia con una serie di piccoli cambiamenti alla trama, dall’altro rinuncia a ogni verosimiglianza, scegliendo la convenzione kitsch – e non credo si potesse fare altrimenti. Ma forse è proprio questa associazione di idee, questa accozzaglia di simboli ora classici, ora imprevisti (il flipper) a rendere il disco, al di là del film, ancora affascinante a distanza di quarantacinque anni. Da un lato lo specchio, la ricerca del sé, il rapporto con i maestri, la religione. Dall’altro abusi sessuali, violenza, droga. L’ispirazione fu, per Pete Townshend, come per molti altri artisti all’epoca, un maestro spirituale venuto dall’India. Si chiamava Meher Baba e per l’appunto nel 1925 smise di parlare, comunicando dapprima con un alfabetario, poi esclusivamente attraverso gesti delle mani, fino alla sua morte, nel 1969.

Del resto, The Who sono stati un gruppo capace come pochi altri di far convivere ribellione e dolcezza, momenti di elevata spiritualità e di violenza (ogni loro concerto si concludeva con la devastazione della chitarra, degli amplificatori, della batteria). Tommy raccoglie su disco meno di quanto semina – questa almeno è l’opinione di molti esperti e degli stessi musicisti, che assicurano che sul palco era tutta un’altra cosa. Il disco non ha la compattezza del precedente The Who sell out, né del successivo Who’s next, col quale i quattro musicisti faranno un incredibile salto di qualità, soprattutto a livello di tecnica individuale. Ma in Tommy ci sono momenti di grande musica, come la prima parte, caratterizzata dai raffinati passaggi armonici di Ouverture, It’s a boy e 1921 con a seguire Amazing journey, il cui testo – a quanto mi risulta – fu l’unico a essere inserito nell’album, come fosse la chiave per capire tutta l’opera. E poi c’è lo humour nero dei ritratti di Cousin Kevin e Uncle Ernie, e ci sono le canzoni di successo come Pinball wizard e The acid queen. Tommy è una musica e una storia che non ha perso la sua forza a distanza di quasi mezzo secolo.

(la foto riportata di Jim Summaria, tratta da Wikipedia, è stata da noi autonomamente scelta nel rispetto delle condizioni della licenza Creative Commons ivi specificate)

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