Che cosa vuol dire creare? Cosa sta tra la conoscenza e l'atto dell'artista? Al centro della cultura mitteleuropea (più che in quella propriamente tedesca) a cavallo tra XIX e XX secolo, stanno spesso la dannazione dell'essere e del fare, dell'essere ontologicamente artista e l'urgenza del dire la vita, salvo trovarsi poi senza vita per le mani e senza mani per agire come gli altri e con gli altri. La creazione, scientifica e artistica, diventa una spina nel fianco di chi si confronta con una cultura capitalistica e borghese.
Tonio Kröger (1903) è uno dei tre romanzi brevi che hanno fatto la fortuna di Thomas Mann, presso quei lettori che non abbiano il coraggio o la forza di avventurarsi tra opere molto più impegnative (Doktor Faustus, La montagna incantata, I Buddenbrook, Giuseppe e i suoi fratelli). Ma è evidente che il giovane Tonio, con quel suo nome che non sta né a nord, né a sud, con quel suo nome piantato lì come un chiodo a crocifiggerlo alla sua diversità, è un giovane Gustav von Ascenbach.
L'uomo, invaghito della diversità del bellissimo Hans Hansen, così socievole, così amato, così normale, poi innamorato della vacua Ingeborg, stringe una relazione tutta intellettuale con l'unica donna con cui abbia un rapporto. Con lei, Tonio, nei capitoli centrali, parla dell'atto della creazione e del posto dell'arte in un mondo che riconosce aristocrazia e ricchezza, produttività borghese e sudditanza estatica al potere.
Tonio Kröger, che Mann pubblicò ventottenne e che certo non è un romanzo immediato, espone dei crucci estetici e filosofici che vengono disattesi dall'atto del narrare del suo stesso autore: non si racconta un personaggio o una storia, la si traccia attraverso momenti diversi della sua vita, dalla giovinezza all'età matura e responsabile. Ma quel che più si fa è confrontare il clima spirituale e la temperatura esistenziale del protagonista con universi paralleli e inavvicinabili.
L'artista, l'intellettuale, lo scienziato, l'altro è condannato a specchiarsi nella propria diversità. Gli si rimprovera di essere diverso, di non avvertire il fascino del benessere e della normalità. Hans e Inge rappresentano gli uomini e le donne felici, estranei e insofferenti rispetto a quella melancholia, a quel sottile male del poetare per sé e per un uditorio. Ma non si può negare che il lungo, appassionato monologo centrale di Tonio appaia oggi un po' ozioso, come il farneticante proclama di chi non vuol assumersi il suo ruolo in un mondo che muta, né la propria supremazia.
Abituati come siamo a classificare con ricordi scolastici i protagonisti, ci viene forse facile attribuire a Tonio l'epiteto di inetto. Ma l'uomo si prende carico sul serio della responsabilità di definire e riconoscere l'arte nella vita, di trovare le sue strade, fosse pure per tendere un agguato a questo male che corrompe la salute e la felicità:
Mi sento mortalmente stanco di rappresentare l'umano senza prendervi parte. C'è da chiedersi se l'artista, in fondo, sia un uomo.
Tonio Kröger, con la sua religione dell'arte, si guarda bene dal proporre una religione del bello: certo, c'è un'ammirazione gelosa per l'aitante Hans e un timido, ma stringente desiderio per la bella Inge. E questa brama in letteratura si fa ricerca di stile, nella danza ambizione al ritmo e alla forma. Ma il controllo è, a sua volta, atto creativo, non censorio, è bisogno di amore e di una parziale vicinanza umana contro il disprezzo ed è proprio quello che sfugge all'artista che si guarda attorno irrequieto. Tonio Kröger è già un romanzo su un cordone sanitario che, inaspettatamente, cade su di noi e ci isola dagli altri: l'artista vi viene definito in negativo, ma trovare un posto in società non è il suo problema. È molto più urgente individuarne la natura e il senso.