Dico 6 giugno 1944, Omaha Beach. E tu pensi immediatamente: “Il D-Day”. Giusto.
Dico D-Day e cinema, e tu mi replichi immediatamente: “Salvate il soldato Ryan”. Corretto.
Dico Sbarco in Normandia e fotografia, e tu esclami: Robert Capa. Sbagliato.
O meglio, non soltanto Capa. Siamo stati tutti affascinati da quei famigerati 11 scatti, gli unici a essersi salvati dopo un maledetto errore nello sviluppo: la vita e’ curiosa e pure un po’ vigliacca, se sei un fotoreporter che ha appena portato a casa la pellaccia e pure i rullini che hanno documentato lo sbarco, ed un anonimo stampatore te li distrugge in un minuto.
Ma a documentare lo sbarco in Normandia non c’era solo Robert Capa. C’era anche Tony Vaccaro.
Tony e’ un ragazzone di appena 22 anni dalle origini inequivocabilmente italiane, approdato a NY solo nel 1939. Il 6 giugno del 1944, imbarcato su una nave militare a poche miglia dalla Normandia, non sa di avere davanti un futuro da fotografo, segnato da importanti ritratti, reportage toccanti, stretti rapporti con grandi artisti. Mentre attende di essere indirizzato alle coste francesi, Tony è piuttosto arrabbiato: qualche mese prima, ha cercato di entrare nel “Signal Corp” per poter indossare la divisa del reporter di guerra, ma non è stato accettato. Non si è rassegnato, ed è partito per l’Europa con una Argus C3 che non abbandonerà per tutta la durata del conflitto: due anni dopo avrà documentato le operazioni alleate da puro fotoamatore, per un totale di oltre 8.000 (ottomila!) scatti, spesso sviluppati in condizioni di assoluta emergenza:
“L’unico contenitore per sviluppare i miei rullini era il mio elmetto. Ma ne servivano cinque: quello con lo sviluppo, il D-76, poi l’acqua, l’iposolfito, l’acqua per il primo lavaggio dell’iposolfito e, alla fine, un secondo lavaggio più lungo. Per questo avevo preso un elmetto da un cadavere che mi stava vicino. Senza termometro e senza bilancia ho sviluppato il primo rullo di notte, a cielo aperto, tenendo le estremità della pellicola con le due mani e facendola scorrere su e giù per 11 minuti, quanto era necessario per svilupparla. Al termine del lavaggio, appendevo la pellicola sui rami degli alberi e, la mattina dopo, il negativo era pronto.”
Fra tutte, ne scelgo una che trovo significativa, e in qualche misura bellissima: è una foto imperfetta (come imperfette furono gli sviluppi degli 11 scatti di Capa già citati), e forse per questo mostra ancora più drammaticamente la sua consonanza con la guerra.
“Le pellicole che sviluppavo le portavo sempre con me, nello zaino, ma man mano che aumentavano facevano sempre più volume. Così, quando arrivammo a Parigi, in un teatro distrutto dai bombardamenti trovai uno di quei reel che si usavano per avvolgere le pellicole cinematografiche; la larghezza era la stessa, 35mm. In questa grande bobina avvolsi allora tutte le mie pellicole, una dietro l’altra, man mano che le sviluppavo. Ma per farcele entrare tutte le dovevo tirare, così la polvere e l’umidità crearono delle irrimediabili micro-rigature. Nelle stampe si notano, ma io li ho considerati segni lasciati dalla guerra, come ferite indelebili”
(c) Nadir.it
Tony Vaccaro, classe 1922, infinito “manico” fotografico e testardaggine tipica di chi non molla.