La sua faccia era la faccia della madre: guardate la fotografia di lei. Da ragazzo era certamente un bel ragazzo: proprio per quella femminilità dura che aveva nel volto. Forse volle diventare brutto. Si travestì da brutto, si fece la maschera del brutto, recitò la parte dell'uomo che non ha presenza e che perciò non può avere successo con le donne. Sì vestì male, si pettinò male, finse di odiare quella sua faccia e quel suo corpo che amava tanto.
Castigava il suo aspetto fisico in tutti i modi, come una ragazza che sia stata giovane e bella e che, delusa da un matrimonio mancato, si ostina a travestirsi da vecchia zitella.
Questo il ritratto che Giuseppe Trevisani ci fornisce nei riguardi di Pavese, ed osservando alcune vecchie fotografie in cui è ritratto risulta innegabile la sincera limpidezza della sua analisi.
Sembra quasi di scorgerlo nell'appartamento della sorella in via Lamarmora a Torino.
Le scarpe da poveretto, gli abiti vecchi e logori un po' dondolanti traditi da quella struttura corporea slanciata e langarola, i passi lunghi, gli occhiali dimenticati sul naso, alcuni tic peculiari di chi è condannato all'isolamento e quell'immancabile sciarpetta bianca attorcigliata inutilmente per metà attorno al collo come in quella foto a Gressoney.
Lui uomo-libro che non aveva tempo per nulla, nemmeno per mangiare, e filava dritto in camera calato nella sua solitudine esistenziale lontano dal mondo disumano, perso tra i suoi scritti, fedeli compagni di una vita.
Avvolto in una nube esalata dalle sue Giubek nonostante il tormento dell'asma, muto mentre si attorciglia nervosamente alle lunghe dita alcune ciocche di capelli nella penombra della stanza, assorbito da una perturbata quotidianità.
Ma il rumore del vivere è assordante, trapassa i vetri e le porte e ficcare la testa tra i volumi per rendersi sordo è impresa sempre più ostica.
Così tra le pagine de “Il mestiere di vivere” che si traducevano nel duro lavoro del mestiere di scrivere annotava:
“Qualcosa che ti lascia come un fucile sparato, ancora scosso e riarso, vuotato di tutto te stesso. Accorgersi che tutto questo è come nulla se un segno umano, una parola, una presenza non lo accoglie, lo scalda - e morir di freddo – parlare al deserto – essere solo notte e giorno come un morto”
Da buon piemontese non amava granché viaggiare se non nei cinema immaginando l'America attraverso occhi altri, tetro eco di salgariana memoria.
Solo le amate colline erano in grado di placare quell'animo inquieto dove i personaggi dei suoi romanzi finivano inevitabilmente per gravitarci ossessivamente attorno, anime avvinghiate a quella misteriosa campagna piemontese composta da miti e ricordi e da leggende tramandate di stalla in stalla. Una realtà ovattata e fantastica rischiarata dall'ardore dei falò che nelle notti d'estate esaltano le geometrie sinuose dei colli e fanno compagnia ad una luna così immensa.
“Allora credi anche nella luna? '
'La luna ' disse Nuto, ' bisogna crederci per forza. Prova a tagliare a luna piena un pino, te lo mangiano i vermi. Una tina la devi lavare quando la luna è giovane. Perfino gli innesti, se non si fanno ai primi giorni della luna, non attaccano. ' "
E come un buon contadino zappa e vanga la sua terra così Pavese dissodava e scorticava con la penna le profondità degli anfratti più reconditi della sua inadeguatezza trasformando i luoghi da inferno a Olimpo come vedremo ne “I dialoghi con Leucò”.
Lui che contadino si sentiva davvero, nato per caso nella campagna del Belbo durante una villeggiatura estiva, aveva assorbito quell'essere rugoso ed antico come se ci fosse vissuto dentro da sempre, il suo sangue intriso ed impastato nella zolfosa terra di Langa era l'orizzonte di quel sottile confine tra l'universo astigiano e cuneese.
La poesia era così germinata, tessuta di una fragilità coriacea, permettetemi questo ossimoro, perché in “campagna è tutto spesso, dalle pelle dei piedi al fustagno dei calzoni”
A buon ragione merita ricordare un aneddoto che vede Pavese e Davide Lajolo discutere fra i viali di Torino durante un afoso pomeriggio estivo:
“Attraversammo Piazza Statuto, a Torino, nelle prime ore pomeridiane di quell’estate accesa, sotto un sole a picco. Nessuno dei due aveva il volto sudato. Improvvisamente Pavese ruppe il silenzio, proprio su questa constatazione: “Il non sudare significa che io e te valiamo ancora qualcosa, perché siamo rimasti contadini. Il sole trova posto sulla nostra pelle e non ha bisogno di farla luccicare. (…) L’unica cosa che lascerò sono pochi libri, nei quali c’è detto tutto o quasi tutto di me. Certamente il meglio, perché io sono una vigna, ma troppo concimata. Forse è per questo che sento ogni giorno marcire in me anche le parti che ritenevo più sane. Tu, che vieni come me dalle colline, sai che troppo letame moltiplica i vermi e distrugge il raccolto”.
Quell'immobilità delle ore estive, in cui la canicola si estende e penetra dentro ogni cosa. Un senso di morte sembra dilagare sulla la terra cotta e riarsa dal sole d'agosto.
Il richiamo ad un passaggio de “La luna e i falò” è irresistibile:
Fa un sole su questi bricchi, un riverbero di grillaia e di tufi che mi ero dimenticato. Qui il caldo più che scendere dal cielo esce da sotto – dalla terra, dal fondo tra le viti che sembra si sia mangiato ogni verde per andare tutto in tralcio.
Immutabilità spezzata solo dal fischio di un treno, vecchie locomotive a vapore che con il loro lento mormorio penetrano in un mondo altro regolato dal ritmo primitivo delle stagioni.
Il convoglio proveniente da Torino o Alessandria scorre lungo le rive del Belbo portando la novità di ciò che regna oltre le colline, riempiendo la vallata di un senso mistico-esotico, di città, di volti, di tesori, di ragazze ben vestite.
Restare ad osservarlo avanzare sui binari masticando una foglia di menta appollaiati tra le vigne e una fetta di cielo. Cercare poi la collina più alta oltre Gaminella, salire lassù a respirare il marino assaporando la sua fragranza, Quel vento che nella stagione calda spira da sud, oltre i confini della vicina Liguria dove finisce un mondo e ne inizia un altro. Inseguire scalzi quegli stradoni polverosi tra Nizza Monferrato e Canelli odorosi già di sale; dar libero sfogo alla fantasia e farsi paesaggio.
Laggiù dicono ci sia c'è il mare! E il nonno di Gosto narrava di averlo visto davvero!
“Io il mare l'ho sempre immaginato come un cielo sereno visto dietro dell'acqua” il nonno non fantasticava, forse come me era salito a Mombarcaro (nota come la vetta delle Langhe) dove nelle giornate limpide ed assolate dal piazzale della chiesa, con un po di fortuna, è possibile scorgere il luccichio del mare di fronte alla costa savonese.
"Tutte le strade finiscono al mare," gli dicevo, "dove ci sono i porti. Di là ci s'imbarca e si va nelle isole, dove gli stradoni riprendono.
Universo precluso a queste anime confinate in un entroterra cieco, “Ma, chiuso in una stanza, e in un mondo chiuso” ricordando le parole di Levi in “Cristo si è fermato a Eboli” ponendo un parallelismo con i lontani “cugini” lucani.
Per Pavese però il mare diventa subito “una gran vaccata”. Quel liquido nervoso ed instabile “che si muove anche di notte e non sta fermo mai”, assecondata la curiosità non riesce a comprenderlo e farlo suo.
Un conflitto mare-campagna insanabile, annacquato in uno smarrimento di distanze e filtrato da un angoscia che spinge a ritornare al sicuro grembo delle colline, perché la collina è femmina e madre ma anche regno scarificale che con una malcelata sensualità si tramuta in dea.
Donna e morte sono così indissolubilmente legati. L'urlo, il sangue, la carne, la terra e la solitudine: “tesi l'orecchio che ancora avevo pieno, come d'acqua marina, di quella voce un poco rauca, fredda, materna. Ogni brusio e ogni ombra mi arrestava. Delle creature selvagge intravvidi soltanto le fughe. Quando venne la luce – una luce un po' livida, coperta - guardai dall'alto la pianura, questa strada che facciamo, straniero, e capii che mai più sarei vissuto tra gli uomini”.
Intanto su Torino grandi nubi disegnano buffe figure, fuggendo nel cielo caotico verso le colline imbiondite dal solleone, in un susseguirsi di placide onde che hanno la forma dell'addio e di una felicità ormai perduta come l'ultima pioggia d'estate.
Cesare Pavese ha percorso la sua fugace esistenza imitando i gamberi, in un perpetuo moto controcorrente volto all'indietro.
Avulso e disinteressato ai miraggi del futuro ha investito le energie volto alla comprensione della più pura e primordiale essenza, tradotta in affreschi letterari dal sapore fanciullesco spesso di ardua interpretazione se scarsamente dotati di sottile sensibilità. Così un semplice albero, una vigna, un sentiero od una zappa, elementi dai significati apparentemente elementari si caricano di uno spessore sacrale risplendendo di una luce calda, vivace, materna ed antica e rievocando, in un abbattimento spazio-temporale, quei misteriosi falò che ci relazionano alla sostanza dell'essere.
Si è fatto tardi, oltre i campi di granoturco arrossa la sera e si affretta la notte, l'ultimo fascio di luce obliqua illumina la mattonella ogni giorno un po più in la; mistero delle stagioni. Non facciamo più pettegolezzi anche questa penna è esausta.
Filippo Spadoni
Bibliografia:
Il vizio assurdo - Davide Lajolo 1960
Giuseppe Trevisani - Cesare Pavese, Chi l'ha Visto 1961
Cristo si è fermato a Eboli - Carlo Levi 1945
Fammi una domanda di riserva: Paolo Conte in parole sue raccolte da Massimo Cotto - Massimo Cotto 2015
Feria d'agosto – Cesare Pavese 1946
La luna e i falò - Cesare Pavese 1950
Dialoghi con Leucò – Cesare Pavese 1945 – 1947
Le piccole virtù - Natalia Ginzburg 1962