Le cose andarono più o meno così. Correva l’anno 1864, i Savoia si erano annessi da poco tempo l’Italia e Torino, capitale del Regno, contava duecentomila abitanti. Nel mese di gennaio il consiglio comunale approvava il progetto di Piazza Arbarello e la sistemazione di Piazza Statuto. Ai primi di febbraio, una nevicata di sessanta centimetri bloccava i treni provenienti da Genova e Pinerolo. Il 13 aprile aveva luogo l’ultima esecuzione capitale, giustiziato il ventitreenne Savio Carlo di Filippo nato a Incisa Balbo. Il 3 giugno, gli operai del Regio Arsenale di Borgo Dora proclamarono uno sciopero che cessò dopo che una delegazione venne ricevuta dal Ministro della Guerra. Ed era il 18 settembre quando i giornali pubblicarono la notizia bomba. Con la firma della Convenzione di Settembre, avvenuta tre giorni prima a Fontainebleau, le truppe francesi si sarebbero ritirate da Roma e l’Italia s’impegnava a non invadere lo Stato Pontificio. Fin qui nulla di che. Fidandosi poco degli italiani, però, Napoleone III aveva ottenuto come garanzia il trasferimento entro sei mesi della capitale da Torino a Firenze. Il protocollo aggiuntivo doveva restare segreto ancora per un po’, ma l’informazione divenne presto di pubblico dominio. Il 20 settembre la filogovernativa Gazzetta di Torino pubblicò un articolo, suggerito da Vittorio Emanuele II, a favore al trasferimento e che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto placare il previsto dissenso. Lo spostamento della capitale non rappresentava soltanto una grave perdita di prestigio per la città: la borghesia imprenditoriale stava investendo ingenti capitali nell’edilizia, i ministeriali non sarebbero stati propensi a un cambiamento di sede, la nobiltà subalpina avrebbe dovuto rinunciare ai privilegi legati alla presenza della corte sabauda. Ma dopo l’Unità i tempi avevano rapidamente mutato corso, erano entrate in gioco consorterie affaristiche e politiche che miravano a creare una nuova classe dirigente lontano da Torino.
La pubblicazione dell’articolo rappresentò la scintilla che scatenò i fatti drammatici dei giorni successivi. Il 21 e il 22 settembre, i numerosi cittadini torinesi scesi in piazza (con sabauda compostezza) contro lo spostamento della capitale furono attaccati a diverse riprese dalla forza pubblica che non si peritò di far fuoco senza tanti riguardi. Rimasero sul terreno 52 morti e 187 feriti. L’inaudita carneficina destò grande scalpore in Italia e all’estero. La successiva inchiesta parlamentare appurò che l’ordine di repressione era partito da uno dei ministri del governo Minghetti, il quale diede le dimissioni da presidente del Consiglio: l’ispiratore fu ritenuto Silvio Spaventa, segretario generale del Ministero dell’Interno nonché braccio destro del ministro. La repressione era stata resa più crudele dagli esecutori materiali: soldati, agenti di polizia e allievi carabinieri, sobillati da provocatori prezzolati, avevano tirato alla sans-façon sulla folla disarmata. Le autorità di Pubblica Sicurezza, il questore Chiapussi per primo, furono destituite. Al termine dell’inchiesta, tuttavia, il Parlamento decise di non attribuire ad alcuno la responsabilità di quelle tragiche giornate: i mandanti rimasero perciò impuniti.
Un mese più tardi, il 30 ottobre, Massimo D’Azeglio scrisse su L’Opinione un articolo che si concludeva così: “Io credo vi sia molto da dire sul trattato, ma che, date le circostanze presenti, visto che è stato acclamato dalla Nazione, visto che noi torinesi ne veniamo particolarmente a soffrire, visto che in Italia la questione capitale non è quella della capitale ma quella della concordia, opino che noi per primi dobbiamo rassegnarci ad accettare il trattato. Soltanto che non vorrei sentire parlare di compensi. Al sacrificio mi sento disposto, a presentare il conto no”. L’orgoglio tutto piemontese espresso da tali parole non celava – anzi, paradossalmente sottolineava – che la Ragion di Stato doveva prevalere su ogni altra questione. Il 16 novembre, il Senato approvò la Convenzione di Settembre con 134 voti a favore del trasferimento, tra i quali quello dello stesso D’Azeglio, contro 47 (e due astenuti). Tre giorni dopo, stessa schiacciante maggioranza alla Camera dei Deputati: 305 voti a favore, 68 contrari e altri due astenuti. Il 15 dicembre la Gazzetta Ufficiale pubblicò la legge che trasferiva la capitale da Torino a Firenze, e tanti saluti.
Il primo gennaio 1865, in occasione del capodanno, Vittorio Emanuele II si recò come consuetudine allo spettacolo offerto dal Teatro Regio e qui ricevette un’accoglienza a dir poco gelida. La faccenda si ripeté il 30 successivo, quando né il sindaco né il consiglio comunale parteciparono a un ballo di corte. La situazione, già tesa di per sé, fu aggravata dal comportamento violento che le guardie inviate dalla questura tennero contro una folla di manifestanti che era scesa in Piazza Castello per commemorare le luttuose giornate del settembre precedente. Mostrando regale sdegno per tanta ingratitudine (dopotutto chi aveva unificato l’Italia, boia faus!), Vittorio Emanuele lasciò Torino per la tenuta di San Rossore e, infine, raggiunse Firenze.
Gli avvenimenti che seguirono rasentano il ridicolo, ma raccontano bene tutta l’ambiguità in cui la politica italiana si barcamena da sempre. Di fronte al muso messo su dal re, il sindaco di Torino Emanuele Luserna di Rorà non trovò di meglio che partire di gran carriera alla volta di Firenze, latore di un documento in cui il consiglio comunale si profondeva in mille scuse per la dimostrazione ostile del 30 gennaio. A svolgere opera di mediazione fu incaricato il ministro Lanza, peraltro organizzatore del gran ballo che aveva scatenato gli incidenti tra forze dell’ordine e manifestanti. In tempi strettissimi fu emanata un’amnistia generale riguardante anche i fatti del 21 e 22 settembre, a condonare in un sol colpo i militari responsabili delle violenze e i civili rimasti coinvolti. Sistemata alla spiccia la faccenda e archiviato il malumore, Vittorio Emanuele II fu nuovamente a Torino il 28 febbraio per partecipare al corso carnevalesco. È in quest’occasione che s’inserisce il noto episodio di Gianduja il quale, in maniche di camicia, si avvicinò alla carrozza reale che transitava in Piazza San Carlo esclamando: << Maestà, l’hai già daje la camisa, per chiel j daria anche la vita! >>. Sospetto che questo episodio sia stato maneggiato per benino dai giornali governativi, infatti venne unanimemente considerato come suggello della riconciliazione tra popolo e casa regnante.Il 26 aprile 1865 il trasferimento della capitale diventò ufficiale e, a questo punto, nessuno ebbe più da ridire: l’accordo diplomatico con i francesi era salvo e la cittadinanza aveva ingoiato il rospo tutto intero. La data più significativa, però, resta quella del 7 maggio, quando all’Hotel Trombetta si tenne un gran banchetto in onore di cinquantanove deputati che davano l’addio alla vita parlamentare subalpina. Come sempre capita in Italia, tutto si conclude a tarallucci e vino. E il torinese, quando viene sottoposto a un sopruso, non capisce (o finge) ma infine si rassegna e si adegua educatamente allo stato delle cose.
Il 12 settembre, l’opinione pubblica fu scossa dal furto sacrilego di una lampada votiva in argento avvenuto nella cappella della Sindone. Per giorni e giorni in città non si parlò d’altro. Poi, come sempre capita, nuovi accadimenti si succedettero: la consacrazione della chiesa di San Pietro e Paolo alla presenza della futura regina Margherita, la morte di Massimo D’Azeglio, un incendio nei magazzini di Porta Nuova… E anche del furto nessuno si chiese più nulla.
(Notizie desunte da C. Chevallard - P. Frova, Cronaca di Torino, Le Bouquiniste, Torino)