La France est notre patrie
I racconti dell’orso di Samuele Sestieri e Olmo Amato (Italia). Torino 33 (concorso)
Si potrà definirlo imbarazzante senza passare per screanzati? Per carità, ogni tentativo nell’ambito dell’asfittico cinema italiano di fuoruscire dal consueto va incoraggiato, tantopiù se ci si misura con un genere assai poco radicato nella nostra tradizione filmica come il fantastico. Sicché prima della visione, e dopo aver letto la sinossi, si era abbastanza ben predisposti verso questo piccolo e ultraindipendente I racconti dell’orso. E invece. Innanzitutto ringrazio uno spettatore che, a fine proiezione, mi ha illuminato fornendomi almeno la chiave di comprensione del film, chiave che, per inettitudine mia o per eccesso di ellissi e di non-detto da parte dei due registi, non avevo afferrato. Dunque: quel che vediamo sullo schermo, qualcosa tra il folle e lo sgangherato, altro non sarebbe che il sogno di una bambina (che vediamo addormentata all’inizio) che ha perso il suo orsacchiotto, o che ha visto il suo orsacchiotto distrutto. E che vorrebbe recuperarlo. Ve lo dico mica per fare spoiler, ma perché, vi capitasse di vederlo, almeno abbiate in mano un filo per districarvi nel labirinto. Dunque: dopo il suddetto prologo con la bambina (tutto in inglese) vediamo due creature che sembrano scappate da un alien-movie di serie Z o da un graphic novel. Chiamiamoli alieni. Lui in tuta rossa anche un po’ fluo, lei (io almeno sostengo sia una lei, altri son convinti che non lo sia) una tizia che sembra uscire dai peggio Star Wars però con addosso una specie di chador. Ecco, i due vagano in paesaggi che a me son parsi finlandesi ma forse sono islandesi, insomma profondo nord. Si parlano come bambini dementi, saltellano come cartoni, si muovono e ballicchiano (malissimo) come in certi programmi Rai per l’infanzia di una trentina di anni fa. Trovano un orsetto squarciato, se ne prendono cura, intraprendono un viaggio per trovare qualcuo che lo guarisca o faccia un miracolo. Ora, a parte i paesaggi che fan la loro parte egregiamente, non c’è in tutta la durata del film un’invenzione degna di nota, il tipo in calzamaglia non c’ha il fisico, e i dialoghi (insomma) tra i due in quella lingua aliena-infantiloide non si possono sentire. Mi si dirà: sono la proiezione della mente di una bambina. E allora? Questo mica può giustificare la goffaggine e la mancanza di ogni senso dello stile. Tremendo. E magari si prende pure un premio. Voto 3
A Simple Goodbye di Degena Yun (Cina). Torino 33 (concorso).
Una famiglia a Pechino. Si capirà più tardi che sono originari della Mongolia, che parlano in mongolo, ed ecco il perché dei sottotitoli in mandarino. Il padre è malato di cancro ai polmoni, la madre è una rompiballe che asfissia il marito, la figlia è una catatonica e ombrosa e fanigottona signorina appena tornata da Londra. Lei dice perché voleva seminare un innamorato non più gradito, peccato che lui l’abbia seguita e lei se lo è ritrovato a Pechino. Intanto chatta con uno sconosciuto, si rifiuta di mangiare perché vuol dimagrire e far la figa col tipo quando si incontreranno, si veste in modo folle. Tutti detestano tutti, anche se sono una famiglia. Ogni tanto il padre molla la moglie e se ne va dalla mamma sua e dalla sorella (che però, scopriremo, lo sfrutta). Benvenuto nel mondo dorato delle famiglie, aggregazioni non sempre così felicemente riuscite, a Pechino come a Stoccolma come Roma è il solito detestarsi senza però riuscire a staccarsi. Poche volte s’è visto ultimamente un ritratto più perfido delle relazioni parentali. Ma poi. Poi le cose cominciano a cambiare, con l’aggravarsi delle condizioni del padre la figlia così ostile sembra abbassare la guardia, e tra i due un qualcosa si ristabilisce. Scopriamo intanto che il signore molto malato è stato un divo del cinema mongolo, quello tutto praterie e scorrerie a cavallo, e che in tutta la Cina è stato un mito. La sua decadenza fisica si incrocia con la decadenza del vecchio cinema, e la visita agli studios impoveriti e ormai in abbandono dove ha girato i suoi successi ricorda L’ultimo spettacolo. Un film che si complessifica e stratifica progressivamente, e senza darlo troppo a vedere. Che scopre con pudore la forza dei legami familiari, oltre tutto e nonostante tutto. Senza retorica, senza cadute sentimentaloidi. E la parte finale è bellissima. Un gran risultato. La regista lo ha dedicato al padre, autore di film avventurosi, e dunque trattasi di storia autobiografica. Nella quale racconta se stessa senza la minima autoindulgenza. Chapeau. Voto 7+
Just Jim di Craig Roberts (UK). Festa mobile
All’inizio sembra la storia del solito nerd adolescente brutto e imbranato, deriso e bullizzato dal gruppo dei pari. Però con dentro parecchio humor acido britannico, anzi gallese (è da quell pari che siamo infatti), e con una regia, dell’attore protagonista Craig Roberts, assai consapevole stilisticamente che congela i personaggi in una fissità da cartoon (deadpan, come dicono gli anglofoni). Poi arriva il nuovo vicino, un americano fichissimo che si chiama o si fa chiamare Dean, ed è Emile Hirsch. Il quale si mette in testa di de-nerdizzare il ragazzo e farlo diventare un tipo di successo a scuola, con le donne, con tutti. E fin qui siamo all’eterno racconto del come-ti-recupero-lo-sfigato-e-ne-faccio-un-tipo-di-successo. Invece no. Il film a un certo punta svolta clamorosamente e diventa qualcos’altro. Già, ma cosa? L’amico americano si trasforma in nemico, anzi in un folle paranoico che rischia di rovinare la vita al protagonista. Il guaio è che non ci si capisce più niente. Ma questo americano esiste o è un doppelgänger del protagonista, una sua proiezione? E il film naufraga e si autodistrugge tra surrealismi gratuiti. Voto 4 e mezzo
Brooklyn di John Crowley (Iranda/UK/Canada). Festa mobile.
Uno dei film più attesi e di maggior peso del menu di questo TFF33. Perché Brooklyn dopo che è stata presentato allo scorso Sundance ha raccolto reviews eccellenti da parte della critica Usa e Uk, tant’è che gli Oscar watchers lo danno ottimamente piazzato per le mitologiche statuette. In particolare la protagonista Saoirse Ronan vien data per favorita per l’Oscar come migliore attrice insieme alla Brie Larson di Room (io però faccio il tifo per la Charlotte Rampling di 45 anni). Adesso che lo si è potuto vedere, si può confermare che Brooklyn è film dignitosissimo, certo una perfetta e furba macchina da premi, e però con parecchie finezze di scrittura e di tratteggio che lo pongono un po’ sopra ai prodotti tipici da Academy Awards. In fondo, trattasi di una storia abbastanza qualunque di una giovane donna con parecchi tratti da soap opera. Ma la mano di Nick Hornby in sede di sceneggiatura conta, e il risultato si vede eccome. Irlanda, anni Cinquanta: Eilis decide di emigrare a New York, un sacerdote irlandese là a Brooklyn le ha procurato il visto, le ha trovato una pensione dove sistemarsi. Lascia l’adorata sorella Rose e la madre e via, sul bastimento verso l’America. La cronaca dei primi tempi di Eilis a Brooklyn è piena di annotazioni interessanti. La padrona di casa abilissima nel gestire il gineceo delle sue ospiti, le amiche, il lavoro in un grande magazzino di alta fascia, la scuola serale per diventare contabile, la vita di parrocchia e le serate di danza all’ombra della sacrestia e sotto lo sguardo del parroco. Sarà a uno di quei casti balli che Eilis conoscerà un ragazzo italiano. Si mettono insieme e, quando lei dovrà tornare in Irlanda per un affare di famiglia, si sposano civilmente e in segreto. Solo che Eilis in Irlanda conoscerà un altro. J’ai deux amours, come cantava la Baker. Niente di particolamente nuovo, ma l’ambiente degli émigré irlandesi cattolici è descritto con acume, la figura di Eilis, così ansiosa di autorealizzarsi, non è per niente banale, e i due giovani uomini che la corteggiano sono fra i personaggi maschili meglio delineati del cinema degli ultimi anni. Hornby il suo mestiere lo conosce, e pure le psicologie maschili, che sa rendere come pochi. Saoirse Ronan brava, ma dobbiamo proprio darle l’Oscar? Voto tra il 6 e il 7
La France est notre patrie di Rhity Panh.
Col suo precedente L’image manquante il francese di radici cambogiane Rhity Panh aveva prima vinto Un certain regard e poi incamerato riconoscimenti in tutto il mondo (compresa, mi par di ricordare, una nomination all’Oscar). Film importante in cui, ricorrendo all’animazione in stop-motion e a materiale d’archivio, Panh era riuscito a ricostruire gli orrori cambigiani dei khmer rossi e quei i due milioni di morti nei killing fields. Grande film, quasi al livello dell’altro sui massacri del secondo Novecento, The Act of Killing. In L’image manquante si rievocava anche l’età pre-Khmer di re Sihanuk e della presenza francese. Qualcosa che già prefigurava questo La France est notre patrie, compilation di pezzi di cinema-documentario – ricavati da film ufficiali e di stato, ma anche privati e familiari – sui decenni di colonizzazione francese nel mondo. Materiale montato senza un commento, senza una voce fuori campo, solo didascalie che, se nell’ultima parte sono di Panh, nella prima mi sembrano tratte da un film d’epoca di propaganda francese (o no? Il guaio è che i nutritissimi credits finali scorrono alle velocità della luce e non si riesce a leggerli). Le immagini parlano, dicono tutto. Immagini in gran parte dell’Indocina, ma anche delle colonie d’Africa e, presumo, caraibiche. Con molta enfasi da parte di chi quei film li girava sulla missione civilizzatrice e la vocazione universalistica della Francia, impegnata a esportare i valori dei lumi e della rivoluzione del 1789. E dunque l’istruzione, gli ospedali. Ma anche l’altra faccia, l’uso su larga scala della forza lavoro locale per fabbriche e piantagioni. Immagini di mercato, di cinema, di parate, di feste, di fatiche. Immagine casalinghe di padroni francesi e servi locali. Di matrimoni misti. Immagini di guerra, con i colonizzati trasformati in combattenti per la Francia. E poi, le rivolte anticolonialiste, gi attentati, e le risposte militari dei fracesi. Un quadro ricchissimo e denso di suggestioni, e mai univoco. Trapela da parte del regista la rabbia per l’umiliazione coloniale, ma anche il malcelato orgoglio di appartenere alla globosfera della francofonia e della francesità. Ed è questa (credo non voluta) doppiezza a rendere tanto interessante La France est notre patrie. Voto 7+
The Forbidden Room di Guy Maddin e Evan Johnson (Canada). After Hours.
C’è stato anche il press screening di questo film che avevo già visto alla Berlinale. Link alla recensione scritta allora.