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TorinoFilmFestival. I 5 film (+2) che ho visto mercoledì 25 novembre 2015

Creato il 26 novembre 2015 da Luigilocatelli
Sunset Song

Sunset Song

Keeper di Guillaume Senez (Belgio/Svizzera/Francia). Torino 33 (concorso).
Già dato a Locarno a Cineasti del presente, e adesso eccolo in concorso qui al TFF. Un altro film del neo-neorealismo belga che nel cinema dei Dardenne ha il proprio ineludibile riferimento e modello. Anche se qui non siamo nelle fasce sociali di margine come nei film dei due fratelli D., ma nella media borghesia dei lavori sicuri e del discreto benessere. Maxime e Mélanie hanno quindici anni, sono compagni di scuola, stanno insieme, si vogliono bene. Succede che lei rimane incinta. Succede quello che abbiamo visto molte volte al cinema gli ultimi anni, lo stupore infantile dei due ragazzi, la pressione da parte degli aduti perché la ragazza abortisca, la cocciuta resistenza di lei che quel figlio lo vuole. Tutto abbastanza scontato. Ma il film poi ha svolte e torsioni inaspettate, e diventa un racconto tesissimo. Finché Maxime e Mélanie si troveranno su fronti opposti, non più innamorati ma rivali in una partita troppo grande e pesante. Con un finale straziante, tra i più perturbanti di questo festival. Keeper più che il tema sensibile delle gravidanze adolescenti tocca quello, altrettanto sensibile e però assai più rimosso, di quale debba essere il ruolo del giovane padre in simili frangenti. Uno dei pochi film del concorso che potrebbero trovare una distribuzione italiana. Voto 7
Kilo Two Bravo (UK). Sezione After Hours.
Il terzo film nei festival di quest’anno a parlare e trattare dell’intervento occidentale in Afghanistan degli anni Duemila, dopo Ni le ciel ni la terre dato alla Semaine a Cannes (ma ripresentato anche qui a Torino) e il magnifico danese Krigen – A War proiettato a Venezia. Afghanistan come campo di forze narrative e luogo cinematografico per epic movies, ma anche per claustrofobici drammi e racconti (e dilemmi) morali. Kilo Two Bravo – girato tutto nel deserto giordano che si finge benissimo la pietraia afghana – ricostruisce gli avvenimenti occorsi nel 2006 a una squadra inglese stanziata nei pressi della diga di Kajaki. Succede che una pattuglia, messa in allame da strani mvimenti che lascerebbero sospettare una’zione talebana, scende dal fortino e vada a controllare. Si ritrpveranno nel letto secco di un fiume disseminato di mine messe dì dai russi ai tempi della loro occupazione, roba degli anni Ottanta. Ne salta una, squarciando un soldato. Ci saranno altre due detonazioni, e il gruppo si ritroverà intrappolato in quella strisca di sabbia infernale, senza potersi muovere, mentre i feriti rischiano di morire. Incomincia la lotta per sopravvivere. Tesissimo. Benissimo scritto e orchestrato. Un film fatto con un pugno di ottimi attori, una scrittura che non sbaglia niente, e una regia in grado di cavare il massimo dal minimo dei mezzi a disposizione. Voto 7 e mezzo
John From di Joâo Nicolau (Portogallo). Torino 33 (concorso)
Una delle poche vere sorprese del concorso. Cinema portoghese ma non di quello estenuato e punitivo e stremato – secondo la linea che va dal peraltro meraviglioso de Oliveira a Pedro Costa -, piuttosto un cinema lusitano di nuovo conio che si fa brillante, tenta la comedia ibridandola con un anarchismo mattocco. Con qualche eco, ma proprio qualche, del nuovo autre-totem di quel cinema, Miguel Gomes (mica per niente il regista è di Gomes il montatore). Parte come una teen comedy sciocchina con una ragazza di nome Rita (l’attrice, che di nome fa Júlia Palha, è bellissima) la quale si incapriccia di un fotoreporter suo vicino che di anni ne ha parecchi più di lei ed è pade single di una bambina di nome Beatriz. Come fare ad acchiapparlo? Cominciano, complice l’amica Sara, le grandi manovre. L’occasione giusta arriva con la mostra delle foto scattate del concupito in Melanesia. Lei si congratula con lui, lui la invita a darle una mano, il resto potete immaginarlo. Ora, cos’è che fa la differenza rispetto a un qualsiasi film di questo tipo? Lo stile, preciso, rigoroso. Nicolau gira spesso a camera fissa, componendo le inquadrature quasi maniacalmente e usando benissimo luci e colore. E poi la svolta surreale del racconto. Per conquistare il suo fotografo Rita si fa una cultura via wikipedia sulla Melanesia, geografia, storia, storie, costumi, usi, musiche etniche, culti religiosi (come quello che dà il titolo dal film, detto mi pare anche culto del cargo). Si dipinge faccia e copro secondo i rituali melanesiani. E il film si trasforma in una fantasia pazza e assai divertente in cui la seduzione e la conquista sono messi in scena nei modi etnografici dei melanesiani. Una bizzaia che paga e che fa di questo film un piccolo culto, già con schiere di estimatori quia Torino che lo vorrebbero vincitore del concorso. Quale madre di Rita si rivede una irriconoscibile Leonor Silveira, l’atrice-feticcio di de Oliveira, qui bionda, magra e moderna. E la signora che presiede la runione di condominio è la giudice appena vista nel volume secondo di Le mille e una notte di Gomes. Tout se tient e tutti ritornano, nel cinema portoghese d’oggi. Voto 7+
Lamb di Ross Patridge (Usa). Festa mobile.
Inafferrabile, ambiguo, torbido. Che film mai è questo melmoso Lamb, peraltro tratto dal libro di una donna? (Bonnie Nadzam, in Italia lo ha pubblicato Clichy). Con tutte le stigmate impresse, e anche i vezzi, del cinema utraindipendente americano, mica per niente lo hanno presentato in prima mondiale al SXSW di Austin, il cinefestival meno allineato e più di margine che ci sia negli Usa, che il Sundance al confronto sembra il trionfo di Hollywood Babilonia. Film che gioca pesante, evocando i fantasmi della pedofilia, ma senza mai caderci dentro, senza mai fornire allo spettatore, ai critici, a chiunque il minimo appiglio, la minima occasione per indignarsi e scandalizzarsi e gridare al mostro. Un quarantenne cui è appena morto il padre, e già abbastanza devastato dalla vita, incontra una ragazzina di undici anni di quelle con genitori disgraziati, fancazzisti, semitossici che se ne fregano di lei. Diventano amici, sempre che un quarantenne possa esserlo di una undicenne. Lui ne conquista la fiducia, con una allarmante capacità manipolatoria, la convince a seguirlo in un viaggio verso le grandi pianura e la fattoria dove lui è cresciuto. Trattasi tecnicamente di un kidnapping, ma si può parlare di rapimento se lei come in questo caso è consenziente? Già, ma fino a che punto può esserlo una undicenne? I due diventano indispensabili uno all’altra, in un legame che è difficile definire. Certo, quando lei lo sorprende mentre fa l’amore con una signora e lui la guarda quasi a suscitarne la gelosia, più di un brivido corre in platea. Finale apertissimo e di massima ambiuità. Ora, io mi chiedo che senso abbia fare un film (e un romanzo) su una materia così sensibile e sdrucciolevole, e farlo in questo modo. Atenzione a Oona Laurence, attrice bambina con già dentro gli occhi la vita. Se non la sprecano, diventerà grandissima. Voto 4
Sunset Song di Terence Davies (UK). Gran Premio Torino.
Omagio a Terence Davies, il settantenne regista di Voci lontane, sempre presenti premiato alla carriera a questo TFF. Ultimo suo film, un fluviale racconto di due ore e un quarto (tratto da un classico del primo Novecento inglese) che non si è rivelato essere il capolavoro sperato. Storia di una donna (siamo in Scozia, nel countryside dalle parti di Aberdeen) legata a un pezzo di terra e a una casa, come Rossella O’Hara e Tara, come la protagonista di Via dalla pazza folla. Conosciamo Chris Guthrie ragazzina, figlia-schiava di un padre manesco e padrone e di una madre straziata da quel marito violento. Sono anni grami per lei e i fratelli. Poi il despota lascia questa valle di lacrime e finalmente la Chris può respirare. Non solo, si ritrova pure padrona di un po’ di sterline e dell’intera fattoria. Che farà funzionare alla perfezione. Certo, manca un uomo, ma non temete, arriverà anche quello, e saranno calde notti tra le lenzuola. La stori continua e continua, e non sto certo a raccontare come finisce. Di quei film-romanzo come ormai non se ne fanno quasi più, figli della grande narrativa di matrice ottocentesca, con eroine che alternano godimenti a patimenti,. Solo che Terence Davies sembra aver perso l’assoluto senso del rigor e dello stile che ne aveva fatto un maestro. I suoi mitologici tableaux vivants qui lasviano il posto a un confezine meno austera, con perfino carrellate che da lui non ti aspetteresti (come quella, infelisissima, sul fango e i fili spinati delle trincee). Il rischio Downton Abbey è sempre presente, e spesso non evitato. L’ultima parte è, spiace dirlo, perfino imbarazzante. Davies torna se stesso nelle scene d’insieme, corali, meglio se con  uso di musiche e canti, come il ballo nel granaio. Ma non basta a rimettere in piedi il film. Oltrettutto con un aprotagonista, l’algida suoermodel Agyness Deyn, di massima inespressivitòà e non credibile quale farmer adusa a mungere mucche. Peter Mullan nel suo solito ruolo di maschio padrone e un filo bestia. Voto 6 meno

Sono stati proiettati alla stampa anche il rumeno Comoara (Treasure), che avevo già visto a Cannes, e il messicano Te prometo anarquia, visto a Locarno.
Comoara: la recensione
Te prometo anarquia: la recensione


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