The Idol (Ya Tayr El Tayer)
Colpa di comunismo di Elisabetta Sgarbi (Italia). Torino 33 (concorso).
A chi chiede come mai siano qui in Italia, due signori rumeni, padre e figlio, rispondono: “colpa di comunismo”. Se non fosse stato per quello, e per le sue ricadute sull’economia, perché mai avrebbero dovuto emigrare? Con la differenza che il primo del comunismo ha nostalgia, il secondo per niente. È un frammento tra i più interessanti dell’indagine condotta a mezzo cinema da Elisabetta Sgarbi (ma quella di regista a quale livello si collocherà mai tra le sue multiformi identità professonali?) sulla presenza di rumeni e soprattutto rumene nel nostro paese. Si seguono con la macchina da presa due signore venute da Fabriano nel ferrarese a cercare lavoro, cui poi si unisce una terza. Fanno il solito giro di conoscenze e amicizie. Tutti promettono, poco di concreto salta fuori, “è che c’è la crisi anche qui”. “Anni fa sì che si stava bene in Italia”, sospirano le disoccupate. Una messa in una (se ho ben capito) ex chiesa cattolica ora riciclata come ortodossa, una festa all’associazione badanti con una signora che canta Quando l’amor diventa poesia, uno di quei meravigliosi pezzi sanremesi anni Sessanta che han fatto il giro del mondo e che noi facciamo finta che non ci appartengono, che anzi ce ne vergogniamo. Una delle tre signore, di fronte a un pescicoltore di un qualche soldo e pure di discreto aspetto, si lascia scappare ridendo che “chi vuole compagnia deve pagare di più che per le pulizie”. Non succede quasi niente in questo film, l’inchiesta (chiamiamola così) sui rumeni in Italia resta limitatissima senza che ci venga detto granché, però due o tre momenti godibili ci sono, lo sguardo non è mai giudicante o sentenzioso, non c’è nessuna pretesa di approccio giornalistico e/o sociologico. A conti fatti, un prodotto che scorre via lasciandosi guardare, forse il meglio dei quattro (troppi!) film italiani in concorso a questo TFF. Musiche a cura d Franco Battiato. Dedicato da Elisabetta Sgarbi a mamma Rina, scomparsa da poco. Voto 6+
The Waiting Room di Igor Drljaca (Canada/Bosnia/Crozia). Torino 33 (concorso)
Un attore scappato a suo tempo dalla Bosnia in guerra e ormai da vent’anni dimorante nella pacifica e aflluente Toronto, Canada. Ma quel passato no, non l’ha mica dimenticato, e lui continua a sentirsi un profugo, un eterno esiliato. Film dell’attore-regista Igor Drljaca, immagino con parecchie risonanze autobiografiche, su un uomo (un alter ego?) che sta organizzando il suo ritorno a Sarajevo, un ritorno insieme di lavoro e di affari di famiglia, e che intanto è costretto a guardarsi e a fare un qualche bilancio. Della sua carriera, al momento non così esplosiva: commercial, un lavoretto a teatro dov’è travestito da signora incinta, un film sulle guerre jugoslave. Della sua incasinata vita privata, una donna con cui ha lasciato la Bosnia e che non sta più con lui da un pezzo e adesso tutto gli rimprovera, una figlia grande e non così presente, una moglie spesso tradita e un figlio brillante. Intanto una ragazza vuol fare l’amore con lui, però a patto che indossi gli abiti femminili con cui va in scena. La storia dell’ultimo Novecento est-europeo ormai smembrata, ridotta a memoria confusa, a contenuto inconscio certo nascosto ma che si ostina a non spegnersi e a riverberarsi sulle vite. Non si scappa da quello che si è stati e si è vissuto, e attraversare gli oceani e cambiare donna no che non basta. Voto 7
The Ecstasy of Wilko Johnson di Julien Temple (UK). Sezione ‘Julien Temple’.
Viviamo sotto la dittatura della trasparenza. Niente dev’essere celato, tutto dev’essere rivelato e esposto. Si è realizzata la distopia del panopticon di Jeremy Benthma, modello su cui ormai è tutta la nostra società che si sta configurando, acciocché ognuno possa vedere e controllare tutti, e tutti possano essere visti e controllati. Orrore reso possibile da media sempre più pervasivi e capillari, e da un’ideologia che fa della distruzione di ogni segreto, pubblico e privato, un valore da perseguire. Un incubo totalitario, perché la democrazia, quella vera, vuol dire anche il diritto a mettere sottochiave la propria intimità se lo si vuole. Oggi invece tutto è indagato e scoperchiato nel nome della verità e della sincerità, e quando non lo è, sono gli stessi detentori di eventuali segreti a svelarsi. Secondo quella spinta al coming out che è cominciata con i movimenti gay e ha poi investito ogni altra sfera. Scusate il lungo preambolo. Ma è quanto mi è venuto in mente ieri vedendo il peraltro molto applaudito film di Julien Temple su una rockstar inglese ultrasessantenne, Wilko Johnson, già frontman dei Dr. Feelgood, che racconta di essere affetto da un cancro incominciato al pancreas e poi estesosi al sistema grastrointestinale. Ecco, quel che altri trovano coraggioso e liberatorio – parlare della propria malattia e della propria imminente morte – a me sembra invece un pessimo segnale di quella coazione e confessare e a distruggere ogni sfera di intimità. The Ecstasy of Wilko Johnson si presenta quasi come il paradigma della letale tendenza, nonostante i suoi indubbi meriti cinematografici e l’estrema amabilità di Wilko Johnson. Che ci spiega con abbondanza di dettagli quanto gli sta succedendo e quanto poco gli resti da vivere. Dieci mesi, e dunque lui si prepara ad andarsene senza fare drammi. Julien Temple lo riprende nella città di mare in cui è nato, ci mostra frammenti del suo passato rock, ma anche del presente. Perché Wilko, dopo aver annunciato al mondo di essere un morituro, ha deciso di organizzare un Goodbye Tour, con tappe anche in Giappone, paese che adora e che l’adora. Julien Temple (regista che non ho mai amato particolarmente) non si limita a mostrarci questi particolari diciamo così cronachistici e documentaristici, ma commenta e contrappunta la traiettoria di Wilko inventandosi immagini ora illustrative ora simboliche, anche ricorrendo a classici del cinema, da Il settimo sigillo al Nosferatu di Murnau, anzi fa addirittura giocare a Wilko una partita a scacchi sulla riva del mare con un incappucciato che ricalca quella del film di Bergman. Più trattamenti psichedelici qua e là, pure del volto di Wilko. Un sovraccarico visivo che spesso funziona e altrettant spesso no, risultando di un fastidioso barocchismo vidoclippettaro anni Ottanta. Incontinente, Temple non si risparmia nulla, nemmeno i fogli del calendario che volano via e le foglie morte che cadono a sottolineare il sempre più ridotto tempo a disposizione di Wilko. Ci sarà però un colpaccio di scena che non posso svelare. Che dire? Qui a Torino ne sono tutti entusiasti, io proprio non ce l’ho fatta ad apprezzare. Gradirei che cartelle cliniche, referti, percorsi terapeutici rimanessero limitati all’ambito privato dei diretti interessati e dei loro familiari. Punto. Voto 5
Ya Tayr El Tayer/The Idol di Hany Abu-Assad (UK, Palestina, Qatar, Olanda). Festa mobile.
2006. Il palestinese Mohammed Assaf vince al Cairo il talent Arab Idol, versione al Medio-Oriente e a tutto il Nord Africa di American Idol. Un successo cui si dà subito una valenza politica. Mohammed è di Gaza, e nella sua città e in tutti i territori palestinesi la sua vittoria è salutata come un riscatto, una rivincita, un’affermazione della propria identità. Lui diventerà da semplice cantante un eroe, un simbolo, la dimostrazione che anche venendo da Gaza si può farcela. Ora, una storia così sembrava già pronta per il cinema, e difatti ecco il film. Una coproduzione tra Europa e alcuni paesi arabi, chiamando alla regia uno dei più conosciut cineasti palestinesi, l’Hany Abu-Assad che ha messo a segno negli scorsi due successi internazionali con Paradise Now e Omar (nominato all’Oscar per il miglior film in lingua straniera e premiato a Cannes a Un certain regard). Ecco, da lui era lecito aspettarsi qualcosa di meglio di questo film ovviamente celebrativo – di Mohammed Assaf e di Gaza e della Palestina tutta – e anche abbastanza convenzionale nella sua scrittura. Fono a sfiorare pericolosamente certi musicareli italiani anni Sessanta più che somigliare a Fame e altri film (e serie tv, come Glee) di musica-e-successo. E allora: l’infanzia in cui già il talento vocale di MA si manifesta, la triste storia della sorellina Nour, il sogno di andare in Egitto per partecipare alle selezioni di Arab Idol. Solo che mica è facile uscire da Gaza senza visto, e saranno parecchi gliostacoli da suoerare. Ma tanto, si sa già come finirà: bene. Mediocre cinematograficamente, The Idol è molto interessate come documento, per le finestre che spalanca su un mondo, quello arabo e quello palestinese in particolare, su cui gravano fin troppi cliché. Anche a Gaza si sogna di diventare famosi con i talent e la tv, anche a Gaza l’impero culturale americano ha esportato i suoi modelli. E poi, occhio agli interni, ai decori, agli arredi, che raccontano stili di vite e culture e gusti tradizionali e però ibridati con la modernità. Di Gaza ci vengon mostrate più volte le case distrutte dalle azioni israeliane, con perfino una sequenza di ragazzi che fanno parkour sui tetti dei rovinatissimi edifici. Nel ruolo di producer di Arab Idol compare una delle star del cinema mediorientale, l’attrice-regista libanese Nadine Labaki, sempre bellissima (lo scorso maggio era a Cannes come giurata di Un certain regard). Il suo personaggio a un certo punto si fa il segno della croce. Dettaglio quasi inavvertibile, ma fondamentale. Perché ci sta a ricordare che nel mondo arabo c’è anche una cultura cristiana forte (che di questi tempi non se la passa troppo bene). C’è voluto del coraggio da parte del regista a mostrare quel segno della croce. Complimenti. Voto 6
The Nightmare di Rodney Ascher (Usa). Festa mobile.
Ci si aspettava parecchio da questo film del regista di Room 237, bizzarra indagine e ricostruzione delle folli teorie complottistiche che nel tempo di sono formate intorno alla stanza segreta del’Overlook Hotel di Shining di Stanley Kubrick. Film che riusciva a essere divertente e insieme deragliato, una combinazione rara. Questo The Nightmare gli sta molto al di sotto. Annunciato come un film di vero orrore che non ci farà dormire, è invece di una noia assoluta. Ascher va a scovare tra America e Inghilterra gente sofferente di quella che vien detta paralisi del sonno, fenomeno per cui si viene colpiti da incubi orrendissimmi senza che ci si possa minimamente muovere. Fenomeno clinicamente alquanto controverso. Solo che ad Ascher non interessa (fortunatamente, così ci vengono risparmiate spieghe e interventi di esperti vari) la genesi della cosa, ma solo la cosa, come si manifesta, chi ne è affetto. Speravo che il film ricostruisse con una visionarietà pazza gli incubi raccontati, e invece macché, niente cine-delirio. Molto è affidato alla parole dei testimoni-vittime, tutt’al più si vedono ombre e mostriciattoli che allungano le dita adunche sulle inermi creature immobilizzate a letto. Robuccia. E pure le testimonianze sono di scarso interesse. Solo due dei pazienti (il signore che il primo incubo l’ha avuto a un anno e mezzo e quello che che continua a esserne colpito ogni notte) trovano le parole in grado di suscitare nello spettatore una qualche risonanza. Ma non basta a riempire un film che vaga per un’ora e mezza in cerca di un baricentro senza mai trovarlo. Ridateci L’esorcista, per favore. Voto 4