Gold Coast (Guldkysten) di Daniel Dencik (Danimarca/Ghana). Con Jakob Oftebro, Danica Curcic, John Aggrey, Luise Skov. Festa mobile.
L’avventura herzoghiana di un govin signore che nella Guinea danese del 1832 vuol portare progresso e giustizia. Sarà una via crucis. Non il solito film coloniale, ma un epic morale, visionario. Da vedere. Voto 8
Una buona, buonissima sorpresa questo film danese già presentato, mi pare, a Karlovy Vary (un festival da tenere d’occhio) e al London Film Festival, ma che pochi davano tra i più appetitibili qui al TFF. Strana la sua genesi. Doveva essere una storia d’amore ottocentesca, ma la malattia dell’attrice che sarebbe dovuta essere la protagonista ha costretta il regista Daniel Dencik (svedese, con passato di documentarista) a svoltare Gold Coast verso altri lidi narrativi, trasformandolo – e meno male – in uno di quei confronti tra uomini europei e torride realtà africane (o esotiche) che finiscono col ridisegnare e travolgere il destino dei primi. Dissoluzione dell’anima, follia, malattia sotto i sole dei trpici e dell’equatore. Restando la matrice tutt’ora infinitamemnte replicata Cuore di temebra di Joseph Conrad. A perdersi stavolta è un giovin signore danese, di professione e vocazione botanico, il quale nel 1832 ottiene dal re l’autorizzazione di recarsi nella Guinea danese a dar vita a piantagioni di caffè. Sì, Guinea danese, e devo dire che non ho mai saputo che la Danimarca avsse avuto le sue colonie d’Africa. Dove, apprendiamo da questo film, si parlava la lingua di Copenaghen e la si imponeva ai locali. I quali dovevano obbedire a un governatore e farsi catechizzare da missionari decisi a salvare le loro anime mediante battesimo e inclusione nella chiesa di Cristo. Wulff Joseph Wulff, questo il nome del botanico, è un idealista, un fervente cristiano, un uomo buono convinto che laggiù potrà continuare i suoi studi in una natura magnificente, e insieme portare giustizia e migliori condizioni di vita. Si scontrerà subito con una realtà complicata. Il governatore, malato e debole, si circonda di uomini debosciati e corrotti deddti a orge e latrocini e vari crimini, la sola luce arriva da una giovane coppia di missionari che educano gli africani non solo all’amore di Cristo, ma al bello, alla cultura, insegnando loro a leggere, scrivere, ascoltare e fare musica. Sono le due facce della presenza europea in quelle terre. Wulff, sorretto dai suoi immarcescibili ideali, cerca di realizzare il bene, si scontrerà con il male e con la cricca dei corrotti, e andrà alla guerra, lui e un pugno di africani armati al suo seguito, contro un signore che continua la tratta degli schiavi, nonostante che la Danimarca l’avesse abolita dal 1803. Solo che questo tragitto così avventuroso e insieme fortemente morale non è raccontato nei modi usuali del film coloniale, ma secondo gli stili e gli approcci del cinema antropologico e quelli del cinema visionario à la Herzog. Il regista cerca di dare forma e immagine ai fantasmi che agitano Wullfi, lo fa cadere in crisi che sembrano trance, mentre intorno a lui la natura pare inghiottiro e divorarlo, e i nativi alternano, con i loro oscuri rituali e i loro silenzi, minacce e protezione. Ci sarà uno smacco, le fortune di Wulffi si dissolveranno. Diventerà una vittima sacrificale, alla fine di un tragitto evidentemente ispirato al modello cristologico. Wulffi come eroe, santo e martire. Come sottolineato dallo stesso corpo – martoriato, dilaniato, esposto – del protagonista, il biondo Jakob Oftebro già pronto per un remake di Jesus Christ Superstar, che attraversa il film riempiendolo della propria follia, del proprio santo furore. Non so se sia un grande attore, di sicuro Oftebro ha la stoffa speciale delle star (ricorda il giovane Peter O’Toole), e ne risentiremo parlare. Il regista abbandona ogni facile spettacolarizazione, concentrandosi sulle persone, e sulle relazioni di fascinazione e repulsione tra europei e africani. Un cinema disegnato intorno alle ossessioni e alle pulsazioni desideranti, fiammeggiante, carnale e insieme profondamente spirituale e impregnato di sacro. Non tutto è perfetto. Spsso Gold Coast si perde e degrada in goffaggini a approssimazioni (le scene d’amore con la fidanzata non sono granché), e le scene diciamo così d’azione non sono il massimo (la presa del forte del signore degli schiavi). Ma c’è dentro un furore che mancava dai tempi dell’Herzog più grande. Troppo presto per dire se sia nato un autore, intanto c’è da sperare che Gold Coast circoli il più possibile, anche in Italia.
Magazine Cinema
TorinoFilmFestival. Recensione: GOLD COAST, una buonissima sorpresa di questo TFF
Creato il 25 novembre 2015 da LuigilocatelliI suoi ultimi articoli
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