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‘The Drop’
Frastuono di Davide Maldi. Torino 32 (Concorso)
Il secondo film italiano in concorso delude anche più del primo, N-Capace. Docu fictionalizzante, come usa adesso soprattutto nel cinema gggiovvane e di frontiera, che ci vorrebbe fornire, o forse non vorrebbe, il ritratto di due ragazzi musicist di Pistoia. Il primo, Iaui Tat, abita in una casa nel bosco, ma nella sua stanzetta compone musica techno fracassona e pum-pum, si immagina per dj set e rave. La seconda, Angelica, abita in città ed è la frontwoman di una band neopunk. Con la solita macchina da presa mobile che segue e pedina, ma per raccontare che cosa? Qui si mostrano fatterelli e cosucce di ordinarissima quotidianità, più un po’ di musica (neanche tanta, poi), senza peraltro che vi vengano fornite delle spieghe basiche per orientarci un attimino. Giacché questo Frastuono rientra nella purtroppo ormai diffusissima categoria di film-making secondo cui meno spieghi e dici, e più fa figo. Il risultato è che niente ci viene raccontato, e che non ci importa niente di quello che vediamo, peraltro benissimo fotografato. Voto 3
For Some Inexplicable Reason di Gabor Reisz. Torino 32 (Concorso)
Alla fine della proiezione stampa è scattato un applauso liberatorio. Finalmente dal concorso un film divertente, dopo tanto penare e soffrire con cose anoressiche e penitenziali tipo Frastuono o As You Were. Commedia giovane, e racconto di passaggio di un giovane uomo che non ce la fa a diventare adulto, proveniente a sorpresa dall’Ungheria, da una Budapest bellissima città-madre che protegge e intrappola i suoi amati figli. Si parte benissimo, con il protagonista Aaron, anni 29, una laurea in storia del cinema, niente lavoro, e una ragazza che l’ha appena lascaito, che simula la morte improvvisa lasciandosi cadere a terra nei luoghi più disparati. Un esorcismo che è anche un’introduione al personaggio assai inventiva. Faremo man mano conoscenza delle sue esitzioni, delle sue goffaggini da nerd in rapida evoluzione verso il loser, delle sue ostinazioni, perché alla sua vita da sconfitto Aaron è affezionato. Sabotando ogni tentativo della iperportettiva madre di trovargli una sistemazione. Gli controllano sul tram il biglietto, e lui subito perde la testa per la controllora, una ragazza molto carina che lui pedinerà fino a sfiorare lo stalking. Intorno un coro di figure e figurette di amici assai ben delineati, e che insieme ci dicono anche molto dell’Ungheria di oggi, con i suoi miti di arricchimento veloce e le sue sacche di sotto- e in-occupazione. Ritratto di uno sfigato di molto talento che però non riesce a trovare il suo posto nel mondo. Dialoghi assai witty. Con, a mio parere, parecchia linfa proveniente dal grande serbatoio dell’umorismo yiddish centroeueopeo, o da quel che ne è rimasto. Aaron non è poi così lontano dal Woody Allen dei primi film. Onore al regista Gabor Reisz e all’attore Áron Ferenczik. Il film perde mordente nell’ultima parte, con l’inutile viaggio a Lisbona e un finalino un po’ troppo consolatorio. Ma avercene. Ben posizionato per un premio. Voto 7
20,000 Days on Earth di Iain Forsyth e Jane Pollard. Festa mobile/Ritratti d’artista
Lo inseguivo da Berlino e adesso che l’ho visto devo dire che non è poi quella gran cosa di cui molti hanno scritto. Ritratto molto da vicino (ma solo apparentemente intimo) di Nick Cave, il pallido prence del rock gotico, il nebbioso signore di tante ballads arrochite. I 20.ooo giorni del titolo sono quelli che lui finora ha trascorso sulla terra, e fate voi il conto di quanti anni siano (io non l’ho fatto). Giovane non è più, questo è sicuro, anche se il capello è sempre assai corvino grazie, immagino, a una tinta massiva (e che non gli sta bene, però lui teorizza che le rockstar devono essere delle icone, “sagome che puoi disegnare con due tratti”, dunque facilmente riconoscibili, dunque immutabili). Sarà anche un gran musicista, però, ecco, il signor Nick Cave non è il massimo della simpatia. Con un narcisimo – ma chi in quel mestiere lì non lo è? – che trasuda da ogni poro e ogni capello. Anelloni d’oro alle dita, occhiali pure d’oro, camicia bianca aperta sul petto: posso dire che è un filo cafonal e che, se dobbiamo stare su quello stile lì, allora mi piaceva di più Califano che se la tirava molto meno? Per carità, il nostro sa stare al mondo, e sa stare davanti alla macchina da presa e usare la macchina-cinema come iedestalo per il proprio mito. Il film è celebrativo, e lui si autocelebra, però lo fa in modo assai furbo e senza darlo troppo a vedere. Ma il fine resta sempre lo stesso di tanti documentari su rockstar e e vari artisti: erigere un monumento in vita al genio. Visto che alla regia c’è una coppia di artisti mi aspettavo francamente di più, i due piazzano sì qualche bella immagine, ma contro l’ego di Cave più di tanto non possono. Tremendi i ricordi infantili tirati fuori in una fintissima e pilotata seduta con uno psicanalista: “Da teenager mi vestivo da donna, ma solo perché ero innamorato e incantato da una ragazza”. Travestito in quanto molto eterosessuale. E via così, con rivelazioni che sembrano esplosive (“in quel periodo ni strafacevo di eroina e alcol”) e non lo sono. Tra gli ospiti, l’attore Ray Winstone e la sempre adorabile Kylie Minogue, che con lui ha duettato in un celeberimo hit. Si conclude con concerto all’Opera House di Sydney (Cave è australiano), tanto per non lasciare dubbi sulla museificazione del personaggio. Per carità, siamo parecchie miglia al di sopra di un analogo prodotto italiano, l’abilità nel dissimulare i toni encomistici è somma. Ma il film resta nella sua sostanza insopportabile, nonostante la sua confezione coolissima. Voto 4 e mezzo
The Drop/ Chi è senza colpa di Michaël R. Roskam. Festa mobile.
Esordio americano del regista belga che qualche anno fa ci aveva assestato un bel pugno nello stomaco con il suo Bullhead, storia di un uomo allevato a dosi massicce di ormoni maschili a causa di una menomazione. Bullhead riuscì a prendersi una nomination all’Oscar per il migliore film straniero, aprndo al suo registo il mercato Usa. The Drop è un noir duro, losco, lurido e cattivissimo in puro stile Dennis Lehane, lo scrittore da cui son stati tratti sia Mystic River che The Town di Ben Affleck. Chiaro che è meno personale, meno autoriale, meno europeo di Bullhead, ma, pur restando nei recinti del cinema di genre, segna un’ottima riuscita per Roskam. Che può contare su uno dei migliori attori in circolazione, Tom Hardy, che stavolta gioca sui sottotoni, sull’underacting, tant’è che solo alla fine riusciamo a cogliere tutta la potenza della sua performance. Bob è un uomo solo, lavora nel bar di Marv, di cui ormai da anni i padroni veri, per quano occulti, sono dei tipacci della mafia cecena. Da buon polacco, ogni domenica va a messa, anche se qualcuno si chiede come mai non faccia la comunione (e il perché lo si scoprirà). Una sera due disgraziati frateli tossicomani rapinano il bar e si portano via cinquemila dollari. Uno sgarro che i ceceni faranno pagare a carissimo prezzo. Sarà solo l’inizio di un torbido intreccio, di un gioco di inganni e controinganni. Action poca. Questo film è più una partita di scacchi, un gioco di simulazioni alla Mamet sull’orlo dell’abisso. Con un twist che davvero non ci si aspetta. E danze pericolose nel giardino del bene e del male, spesso varcando il confine tra l’uno e l’altro. Un ruolo centrale nel plot ce l’ha un cucciolo di pitbull salvato da Bob, e poi rivendicato – con conseguenze che si riveleranno fatali – dallo psicopatico che l’aveva quasi ucciso e abbandonato. James Gandolfini alla sua ultima interpretazione. Voto 7+
Arcana di Giulio Questi. After Hours/Giulio Questi
Alla gremitissima proiezione al cinema Massimo era presente Giulio Questi, anni 90 benissimo portati, uno dei grandi eccentrici del nostro cinema tra Sessanta e Settanta. Solo tre film, Se sei vivo spara, La morte ha fatto l’uovo e Arcana, che sono però bastati a issarlo tra gli autori di culto. Un vero dandy, Questi, che parla con somma sprezzatura e distacco della sua vita professionale, della sua produzione cinematografica. “Il mio è cinema di genere, girare capolavori non è mai stato il mio obiettivo”, ha detto. Il che lo rende ancora più grande, oltre che infinitamente simatico. In attesa di leggere il libro che gli è appena stati dedicato e raccoglie le memorie di una vita dai molti successi e da clamorosi tonfi e stop, Se non ricordo male (a cura di Domenico Monetti e Luca Pallanchi, edizione Rubettino), mi sono rivisto Arcana, anno 1972, film-maudit e dunque diventato leggendario, circolato pochissimo allora e subito ingoiato da un buco nero. Scritto da Questi con Kim Arcalli, e oggetto cinematografico indefinibile. Cinema sociologico, etnografio, politico. Ma ingabbiato nei modi del genere horror-fantastico. Con anarchismi, follie, surrealtà tra Bunuel (l’ultima parte deve moltissimo a L’angelo sterminatore) e Marco Ferreri. Anche, con quel che di laido, sordido, morboso, malato, perverso così anni Settanta. Qualcosa che oggi non sarebbe non solo irrealizzabile, ma nemmeno pensabile. Una donna venuta a Milano dal Sud, rimasto presto vedova del marito tranciato da un convoglio della metropolitana, e con un figlio a carico, per tirar su un p0′ di soldi si mette a fare la maga-fattucchiera-chiromante-tarocchista attingendo alle pratiche magiche del suo mondo di origine. E anche dietro a questo film, come nel caso di Il demonio di Brunello Rondi, si intravedono le ricerche etnografiche di Ernesto De Martino sugli arcaismi del meridione profondissimo. Il nuovo lavoro rende subito bene, grazie anche alla partecipazione-complicità del figlio, il quale mostra di avere poteri che neanche la madre. Siamo, in pieno stile ’70, in un rapporto paraincestuoso con fremiti erotici del figlio per mamma e di mamma per il figliolo, con ambiguità disseminate lungo tutto il film. Ma un’altra donna scomplicherà le cose. Scene pazzesche, come l’esorcismo della tarantata laggiù nel Sud, come gli amuleti che il figlio pazzo dissemina per tutta Milano, e sembrano installazione d’arte avanguardistica. Non sempre il tessuto drammaturgico tiene, le incongruenze sono tante e vistose, ma la potenza della messinscena e lo sguardo autenticamente sadiano di Questi travolgono ancora oggi. La famiglia protagonista si chiama Tarantino, e se non è premonizione questa (Quentin peraltro si è dichiarato ammirarore di Questi, et pur cause), e la scelta del nome da parte dei due autori allude di al fenomeno del tarantismo studiato da De Martino. Lucia Bosé quale madre-strega è di una bellezza e di una sensualità come neanche la Loren è mai riuscita a essere, il figlio è Maurizio Degli Esposti. E c’è Tina Aumont. Se vi capita, correte (ma come potrà capitare questo film di cui non esiste dvd, e la cui unica copia è probabilmente quella proiettata qui a Torino?). Voto 9