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TorinoFilmFestival32. GENTLEMEN – recensione. Sontuoso affresco della Svezia anni ’70

Creato il 22 novembre 2014 da Luigilocatelli

Gentlemen di Mikail Marcimain. Con David Denchik, Fukamachi Regnfors, Ruth Vegas Fernandez, Pernilla August. Svezia 2014. Torino 32 (Concorso)
OFF_Gentlemen01Uno scrittore giovane, ma già in crisi. Un amico dagli strani trascorsi e coinvolto in una storia complicata con una ambigua signora. Oscure trame affaristiche e spionistiche. Tutto nella Svezia anni Settanta. Un affresco strapieno di roba e personaggi che fatica alquanto a mettersi in moto, ma che che poi finisce col ripagarti della fatica iniziale. Voto 7
OFF_Gentlemen02Film sontuoso di quel Mikael Marcimain che due anni fa portò qui in concorso il molto bello Call Girl, intorno a uno scandalo sessual-politico di ninfette e ministri (e pure primi ministri) nella linda Svezia primi Ottanta. Gentlemen ne riprende il furore iconoclasta, la voglia un po’ teppistica di schizzare fango, anzi sparare, sul celebrato modello sociale svedese andando a scoperchiarne segreti, misfatti e magagne, i peccati privati oltre le virtù pubbliche, e ancora una volta, in questa indagine nel sottosuolo (metaforica, ma anche letterale, perché nel film si scavano cunicoli alla ricerca di un mitologico tesoro nascosto), torna indietro di qualche decennio, agli anni Settanta. Che per un regista sono sempre materia succulentissima, con tutta quella selvaggeria di immagini e modi e non-stile, quelle camicione sgargianti, i pantaloni svasati e truzzi, i basettoni, e poi il sesso come capita e con chi capita, ma sempre tanto, troppo, e le droghe peggiori, a partire dalla sozza eroina degli aghi e degli imbrattamenti di sangue e delle overdose in luride stanze. Musiche e musicacce, e concerti post-Woodstock e Parcolambri scandinavi strafattoni, e reading genere Castelporziano però lassù oltre Stoccolma. Marcimain ci dà dentro alla grandissima, senza risparmiarsi niente, e godendo visibilmente nel mettere in scena gli anni migliori-peggiori della nostra vita, anche perché è regista di stile, di spiccata visualità, e i ’70 sono un archivio inesuribile di immagine e di segni, e di eccessi, cui attingere. 140 minuti, e sono troppi, tant’è che dal cinema Classico – da quest’anno sede dei press screening del TFF – ci sono state parecchie defezioni. Anche per via, e per colpa, di una costruzione narrativa elaboratissima, sinuosa, avvolgente, che procede per sentieri che si biforcano in altri sentieri, e seguendo un andamento lento e ampio che ti chiedi dove vada a parare, e solo negli ultimi minuti ogni frammento va al a posto suo a comporre il quadro generale, rivelando una struttura circolare che finisce col tutto comprendere e tutto spiegare. Però, per arrivarci, quanta fatica. La prima ora è a momenti esasperante, Marcmanim prende un personaggio poi lo abbandona per seguirne un altro, e poi un altro acora, in un ramificazione di cui non riusciamo a cogliere il senso e la direzione. Ma costruisce sempre molto bene le sue immagini, alimenta e monta un clima di sospensione, di minaccia, di pericolo incombente. Ci spiazza continuamente mostrandoci pezzi di Svezia anni Settanta assai diversi, lontani, come rovesciandoci addosso le tessere di un puzzle. Infilando pefino squarci di spy story da guerra fredda e incursioni nella Berlino del Muro. Quanta roba, madonnamia. Si comincia con uno scrittore giovane e già in crisi, cui viene commissonato la riscrittura-attualizzazione di uno Strindbeg. Finirà a vivere in un appartamento smisurato, lugubre quanto fascinoso nel centro di Stoccolma, colmo di mobili, gingilli e memorie di più generazioni familiari, ospitato da un amico di nome Henry Morgan  incontrato per caso, un musicista jazz, ma anche un perdigiorno, un bonvivant, membro di una congrega in cerca di un tesoro sepolto sotto la città. Coinvolto da molto tempo in una storia con una ambigua lady che è anche la donna ufficiale di uno degli uomini più potenti e pericolosi di Svezia. Di personaggio in personaggio, di sottotrama in sottotrama, si arriva a seguire Leo, il fratello sballatone del padrone di casa, poeta precoce e poi persosi dietro ogni alternativismo e ogni alterazione della coscienza mediante ogni possibile sostanza. Finché spunta perfino una vecchia storia ai tempi della guerra e della non così limpida neutralità della Svezia, che è la matrice di parecchi successivi fatti e fattacci rigurdanti, direttamente o tangezialmente, i personaggi che ci sfilano davanti. Film ambizioso, di molti piani sovrappost e paralleli, macchinosissismo e ansimante nel mettersi in marcia, però nei suoi momenti migliori, che sono tanti, un ritratto poderoso e per niente convenzionale di quella Svezia di quegli anni (che sono un po’ anche i nostri anni), alternando bassifondi e ambienti altolocati, miserie e obiltà, scena artistico-creativa e quella dura e spiccia del business is business. Un formicolante spaccato di varie umanità e disumanità, tutto però connesse per mezzo di strani legami e intrecci. Tout se tient, in questa Scandinavia dai molti peccati e dai molti segreti. Con perfino derive esistenziali e distruzione e autodistruzioni che hanno in sé l’ombra dei demoni dostojevskiani. Con una figura di padrone-sigbore del male che ricorda il John Huston del polanskiano Chinatown. Un film che, se resisti per la prima ora e passa, poi ti ripaga ampiamente, e finora di gran lunga il migliore tra i quattro del concorso che ho visto.


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