Magic in the Moonlight, un film di Woody Allen. Con Colin Firth, Emma Stone, Jacki Weaver, Hamish Linklater, Marcia Gay Harden, Eileen Atkins. Nella sezione Festa mobile. Nei cinema dal 5 dicembre.
Woody Allen traduce im forma di romantic/sophisticated comedy l’oppisizione binaria ragione-fede, razionalismo positivista-spiritualismo. Mettendo a confronto e scontro un illusionista e la presunta medium di cui lui vorrebbe smascherare la cialtronaggine. Film di impeccabile confezione ed eleganza, ma monocorde e un filo tedioso. Voto 6 e mezzo
Dopo il tosto, implacabile, disincantato Blue Jasmine, un Woody Allen forse bisognoso di atmosfere meno cupe e personaggi meno devastati si rifugia ina classica romantic e pure sophisticated comedy, tutto un battibcco lui-lei e un misurarsi e un punzecchiarsi per saggiare i rispettivi punti di resistenza e fragilità, che poi tanto si sa come a finire. Mica per niente retrodata agli anni Venti per rifare non tanto e non solo la guerra dei sessi secondo la Hollywood classica – con un occhio privilegiato a Ernst Lubitsch -, ma quella di ascendenza teatral-britannica alla Oscar Wilde e Noël Coward. Con tanto cinismo sciorinato a certificare la classe A di questa rom-com, ché ogni eccesso di smanceria e sentimentalismo farebbe subito film da serve (“solo le cameriere si innamorano”, sentenziava l’avvocato Agnelli). Impeccabilmente scritto, però non così necessario, e un po’ troppo lungo e tedioso, concentrato com’è sui due protagonisti – lui (Colin Frth) e lei (Emma Stone) – e scarse fughe lateralmente, con gli altri a far da contono e da coro, o da porgitori di battute brillanti, quelli che nel teatro popolarte italiano si chiamavano spalle. Si parla molto di credere o non credere in Dio (“Dopo Nietzsche l’argomento è chiuso”), di al di là, di oltre vita, però in chiave di leggerezza woodyalleniana, e quando le disquisizioni tendono a farsi serie e a evocare un po’ troppo lo spettro della morte subito si taglia corto e si torna sorridere e far sorridere. Tant’è che la vecchia zia del protagonista, nonostante l’età venerabile e l’incidente di macchina che le è occorso, torna dal letto d’ospedale indomita a solcare l’al di qua, in una metafora trasparentissima e scaramantica dell’immortalità. Isomma, un Woody Allen profondo ma mica troppo, che si affaccia sull’abisso per poi subito ritrarsene e esorcizzarlo. Lo scontro, diciamo pure dialettico, l’opposizione binaria su cui si incardina tutto Magic in the Moonlight è quello tra ragione e fede. Tra razionalità e spiritualismo. Tra credo-in-quel-che-vedo e abbandono al magico. Che è anche tenzone tra maschile e femminile.
Siamo nell’Europa degli anni Venti un po’ ruggenti e un po’ weimar-berlinesi-decadenti, voglia di spassarsela e senso di catastrofe imminente. Stanley Crawford, un illusionista britannico che si esibisce in tutto il continente sotto la falsa identità cinese di Wei Ling So, viene chiamato in Costa Azzurra a smascherara una sedicente medium americana, bella e giovane, che risponde al nome di Sophie Baker. Di lei si sono infattuati la matriarca di una ricca famiglia americana e il figlio di lei, che la sensitiva se la vorrebbe addorirttura sposarehan deciso di ospitarla nellaloro villa sulla Riviera francese. Diffidenti invece l’altra figlia e il marito di lei, un seguace delle teorie e pratiche freudiane. Stanley è convinto di ruscire a smascherare l’impostora in poco tempo, ma non sarà così. Sophie gli darà del gran filo da torcere, sorprendendolo con rivelazioni sul suo passato. Laicismo-ateismo di impronta positivistica ottocentesca opposto ai (presunti) prodigi inscritti in un’altra dimensione inconoscibile. Woody Alen è molto abile nell’llustrare in parole il confronto-scontro tra le due parti, che sono anche due visioni del mondo, ma più di tanto non ce la fa a introdurre variazioni su un tema che nella sua essenza resta limitato. Certo, in parallelo si sviluppa un’altra traccia narrativa, il gioco dell’attrazione tra i due, il misterioso insturarsi dell’amore su un terreno che parrebbe sfavorirlo. Ma non basta a sconfiggere la noia che a un certo punto trapela (e trabocca). Gli attori, come sempre in Wody Allen, non sbagliano un’intonazione, un tempo, una battuta. Colin Forth e Emma Stone, nonostante la differenza d’età, sanno rendere credibili i loro personaggo. Magic in the Moonlight, nonostante i non rari momenti di grazia, resta un film monocorde e prevediile. Con però almeno una grandissima scena, quella del monologo in cui Stanley/Colin Firth dubita di se stesso, di quel che è stato fino a quel momento, della sua cieca fede nella ragione e si apre verso l’ignoto, verso un altro se stesso.