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TorinoFilmFestival33. I 5 film che ho visto sabato 21 novembre ’15

Creato il 22 novembre 2015 da Luigilocatelli
The Dressmaker

The Dressmaker

The Dressmaker – Il diavolo è tornato di Jocelyn Moorhouse (Australia). Festa mobile.
Film ultracamp, solo che dietro la mdp non c’è un fiammeggiante autore gay, ma una regista australiana capace però di sintonizzarsi bene sulle accensioni visuali e l’humour acido della queer culture. Sembra quasi una citazione di La visita della vecchia signora di Dürrenmatt, questo The Dressmaker, dove una giovane donna torna dopo anni all’estero nell’orripilante paesello di ristrette vedute e meschina gente laggiù nello sprofondo australiano, buco nero da cui era scappata via: ostracizzata dopo un fattaccio mica da ridere, la morte di un ragazzino. Cosa vuole adesso? Far luce su quel fatto lontano? O prendersi la sua vendetta verso il villaggio che l’aveva accusata e tagliata fuori? Intanto lei, che nel suo soggiorno in Europa ha lavorato con Balenciaga e Vionnet (siamo nei primi anni Cinquanta), è diventata couturière, e comincia a cucire per le zotiche di quel buco di posto favolosi vestiti da Vogue e Bazaar. Sicché son campissime le scene di gente diorizzata e balenciaghizzata vagare nella polvere del bush, tra sterpaglie e cacche di animali. Il più figo del paese (Liam Hemsworth) si inamora di lei, lei resiste convintà di avere una maledizione addosso, poi cederà (lei, dimenticavo di dirlo, è Kate Winslet, al solito molto brava). Fila tutto molto bene, in questo film, almeno nella prima parte, poi nell’ultima le incongruenze vanno oltre il livello di guardia, e una certa programmaticità appesantisce l’andamento narrativo. Se distribuito in Italia potrebbe avere il suo bel successo di nicchia. Si rivede Judy Davis, è la madre incartapecorita e pazza ma non troppo di Kate Winslet. Liam Hemsworth naturalmente si spoglia, a rimarcare la natura così queer di questo film firmato da una signora. Voto 7 meno
Idealisten – The Idealist di Christina Rosendahl (Danimarca). Torino 33 (Concorso).
Un’altra delusione di un concorso al momento non travolgente (eufemismo). Siamo nel rigoglioso cinefilone del giornalismo di investigazione e inchiesta su colpe vere o presunte dello stato, del capitale, dei poteri forti, delle multinazionali ecc. Sempre lì a scoperchiare nefandezze occultate a danno dei probi cittadini, dei consumatori e via così. Qualche volta questo cinema di pesante e anche greve denuncia funziona, qualche volta no, specie quando gli autori esagerano in conspiracy theories. Ultimo esempio illustre del genere è Spotlight, visto a Venezia, dove si scoperchia il verminaio delle pedofilie da sacrestia nella diocesi di Boston e relativi depistaggi e coperture. Film che non ho amato, ma di sicuro avvincente e fatto come Dio comanda, sceneggiatura di ferro all’americana, regia spedita, attori sublimi: lo vedremo rispuntare agli Oscar. Qui, in questo Idealisten, siamo in Danimarca nei tardi anni Ottanta, protagonista un giornalista radiofonico (l’idealista del titolo) che si ritrova per le mani un caso bollente. Ovvero i retroscena di un incidente avvenuto negli anni Sessanta in Groenlandia, allora territorio danese, allorché un B-52 americano si sfracello al suolo. Solo che trasportava la bellezza di cinque ordigni nucleari: tutti disintegratisi nell’impatto senza fare il minmo danno, dissero allora le fonti ufficiali e sempre ribadirono in seguito. E però succede che, a vent’anni di distanza, i vigili del fuoco danesi impegnati nell’operazione di bonifica (dal plutonio) della zona si ammalino in modo alquanto sospetto, e da lì parte l’inchiesta gornalistica. Tutto verrà rivelato, compresi certi accordi segreti tra Danimarca e Stati Uniti, tutto in nome della massima trasparenza e dell’«i cittadini devono sapere». Film fatto apposta perché le platee si indignino e scandalizzino, eppure, diciamolo, si incomincia a non poterne più di queste narrativa da donchischiotte contro i grandi poteri. Ma chi l’ha detto che la trasparenza assoluta, feticcio dei nostro giorni e della sensibilità collettiva d’Occidente, sia sempre un valore e un obiettivo da perseguire? Ci sono casi in cui certi segreti di stato è bene che restino tali. Ecco, l’ho detto. Oltretutto il film è pedante e noiosissimo, con l’appeal di una vecchia inchiesta televisiva da terza serata. Tutto corretto e tutto legnoso. Regia disadorna. Ma il cinema, anche quello che vuol denunciare e punire i malfattori, non dovrebbe mai dimenticare di essere spettacolo. Voto 4 e mezzo
La Patota/Paulina di Santiago Mitre (Argentina). Torino 33 (concorso).
Ripubblico la recensione scritta da Cannes alla prima del film. Paulina avrebbe poi vinto La Semaine de la critique.
Ci sono andato per sbaglio, credendo che all’Espace Miramar della Semaine dessero Les Anarchistes, proiettato invece in un’altra sala, e poi ci son rimasto. Anche perché il regista, l’argentino trentenne Santiago Mitre, aveva portato qualche anno fa a Locarno un buon film, El Estudiante, ritratto di un furbetto in carriera politica, e dunque questo suo nuovo lavoro mi incuriosiva. Certo che l’inizio fa cascare le braccia. La benestante Paulina, ottima famiglia, ottime prospettive di carriera come avvocato, decide di mollare Buenos Aires e andarsene in una landa desolata dell’Argentina ai confini con Paraguay e Brasile a fare l’insegnante di, diciamo così, educazione civica, ma sarebbe il caso di dire di democrazia. Un lavoro socialmente utile. Sembra la solita lagna terzomondista, ma c’è un clamoroso twist quando Paulina viene stuprata da un torvo tizio di nome Ciro. Quel che segue, anche se raccontato con piattezza, è però parecchio interessante. Paulina non solo non denuncia il suo violentatore, pur sapendo chi è, ma, una volta scopertasi incinta, decide di tenere il bambino. Con disperazione del borghesissimo padre, e sembra di rivedere il recente La scelta di Michele Placido. A conferma che al cinema oggi non si abortisce: l’aborto, almeno sullo schermo, è stato messo fuorilegge. Il film non va granché a fondo, e però quando il padre chiede a Paulina “se a violentarti fosse stato il tuo fidanzato avresti abortito?”, lei risponde: “Sì, l’avrei fatto”. E allora signora mia si aprono abissi. Perché Paulina non denuncia e si tiene il figlio dello stupro? Per quella solidarierà agli oppressi che ha sempre predicato, anche se gli oppressi se ne fregano di lei? Come si vede, c’è materia per parecchie discussioni, anche se il film di suo non è gran cosa. Remake di La Patota (mi pare voglia dire Il branco), un film argentino che negli anni Sessanta era stato un successo, e un caso clamoroso. Voto 6 e mezzo
The Lady in the Van di Nicholas Hytner (UK). Festa mobile.
Per tutti quelli che adorano la britishness, il british humour, il té in tutte le sue declinazioni e aromatizzazioni, Alan Bennett (ogni tanto mi coglie il malevolo pensiero che sia un attimo sopravvalutato, poi vedo le copertine Adelphi delle sue cose e mi dico che forse mi sbaglio. Forse) e Maggie Smith. Tutte cose, a parte Maggie Smith che adoro dai tempi del suo primo Oscar per La strana voglia di Jean, che non sono proprio my cup of tea. Versione cinematografica di un libro che Alan Benett ha tratto da uno spezzone della sua vita, perché, come vien detto plurime volte in The Lady in the Van, tutto quello che capita a uno scrittore poi finisce in pagina, e dunque attenti. La vicenda, che a occhio mi pare un filo romanzata e pettinata ma forse son troppo sospettoso, narra di una molto anziana vagabonda che si fa chiamare Miss Mary Schepherd ma il cui nome probabilmente è Margaret, la quale si installa con il suo scassatissimo van in Camden Town, Londra, prima davanti alla casa di Bennett e poi nel suo vialetto privato. Sembra cosa di pochi giorni, ma questa strana coabitazione (la signora fa su e giù per usare il bagno e qualche altra comodità) dura il bello di quindici anni, tra anni Settanta e Ottanta. Periodo durante il quale emergono frammenti del suo passato, anche se fino all’ultimissimo nessuno mai saprà perché lei, ex suora, donna colta, ottima pianista con studi a Parigi, french speaking, sia finita a fare la barbona. Alan Bennett si sdoppia tra il sé scrittore e il sé che vive perché l’alter ego scriva. Invece la signora del van è una sola, ed è Maggie Smith. Che è brava solo come Maggie Smith sa essere (avrei visto nella parte anche Angela Lansbury però). I film, nonostante quell’altezzosità british travestita da condiscendenza e sottile (sottile?) humor, si fa vedere, merita di essere visto per lei. Son parechi, anche se non troppo espliciti, i riferimenti all’omosessualità del protagonista mascile. Riflessione: oggi sarebbe ancora possibile una storia del genere? Nemmeno il più illuminato e tollerante degli intellettuali credo sopporterebbe una homeless stazionata davanti alla porta per quindici anni. Ormai l’accattonaggio è arrivato a un tale livello di intensità e frequenza che ogni riserva di educata sopportazione è andata esaurita, purtroppo. Voto 6+. Voto a Maggie Smith 9.
Tangerine di Sean Baker (Usa). Festa mobile.
Attesisssimo, dopo la calda, molto calda accoglienza lo scorso gennaio al Sundance. Anche perché Sean Baker, di cui si vide tre anni fa a Locarno il molto buono Starlet, questo suo indipendentissimo film l’ha girato con l’iPhone 5S e un’app chiamata Filmic Pro (ho in tasca anch’io un’iPhone 5S, ma non credo proprio che riuscirei a girare un qualcosa di simile, ahimè). Pier Maria Bocchi presentando Tangerine ieri sera al Massimo ha parlato di filmmaking guerrilla, insomma cinema da strada, rapido, mobile, agressivo, volutamente sporco e impuro nello stile e nello sguardo. (E siccome ha per protagonisti due transgender di imperiosa fisicità, due marcantonie, prima della proiezione c’è stato anche l’intervento di una trans torinese che ha ricordato la marcia fatta in giornata per ricordare le molte vittime trans nel mondo). Dunque: siamo a Los Angeles, dalle parti di West Hollywood, lunga striscia di prostituzione maschile-trans (ricordate il caso Hugh Grant? ecco, era lì). E siamo alla vigilia di Natale, ovviamente senza neve e nel pieno sole della California. La trans Seen-Dee, appena uscita di galera dopo 28 giorni, viene a saper che il fidanzato Chester si è messo con un’altra, “una donna vera, che ce l’ha davvero, e perdipiù quelle smorte bianche”, e da quel momento ha solo un pensiero in testa, cercarlo, trovarlo, fargliela pagare, a lui e alla rivale. Così, basandosi su labili indizi e ancora più vaghe informazioni, comincia la caccia e la sua giornata balorda, insieme all’amica Alexandra, pure lei trans, pure lei prostituta. Ci si diverte parecchio a seguire le peripezie e l’odissea delle due, prima unite poi separate, in un andamento esagitato reso fedelmente dall’isteria della macchina da preso (o cellulare, fate voi). Tutto assai pop, sgargiante, sguaiato, sboccato, assai da marciapiede, sesso parlato e anche praticato, droghe di vario tipo con predilezione per il crack. E posti infami per vite da pochi centesimi, vite da strada. Ma si resta conquistata dall’indomita selvaggeria delle due amiche. Sì, il sordido e lo squallido raggiungono spesso il livello di guardia, ma il vitalismo prevale sul senso di desolazione (quasi) sempre. Intanto seguiamo in parallelo la traiettoria di un tassista armeno con moglie e figli e suocera impossibile, molto amante dei travestiti, cui adora praticare pompini (e quando carica una donna credendola un trans la butta fuori dalla macchina). Seen-Dee troverà il suo Chester (di mestiere spacciatore e pappone), intanto la sua storia si incrocerà con quella del tassista. No, non un dramma sociale, niente lagne sui poveri trans costretti a prostituirsi ecc. ecc. ecc. Questa è una commedia, con un finale ‘alle zusammen’ dove tutti se la prendono con tutti e volano ceffoni che ricorda per concitazione la sequenza culminante di Susanna! di Howard Hawks. Nei modi del cinema vérité, ma è un’apparenza. Tangerine è invece un film costruitissimo, con una sceneggiatura di ferro e una sofisticata architettura narrativa. Così si fa. Dirlo a quei registi nuovi e nuovissimi che pensano che basti piazzare la macchina da presa di fronte a una masnada di bambini urlanti (ogni riferimento a God bless the child non casuale) per far cinema. Scena di culto: il blowjob praticato dal tassista al trave Alexandra in un autolavaggio. Voto 7 e mezzo


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