Torna la diplomazia in Palestina: riparte davvero il “processo di pace”? Il paradigma dello Stato unico

Creato il 11 settembre 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

Il “processo di pace” tra Israele e palestinesi sta per essere arricchito di una nuova pagina in un lungo volume di fallimenti diplomatici inaugurato negli anni ’90 con gli accordi di Oslo, proseguito poi a Camp David, e mantenutosi nell’immobilismo lungo la c.d. Road Map, lanciata dall’amministrazione Bush. Attraverso il segretario di Stato John Kerry, anche l’amministrazione Obama, al suo secondo mandato, lancia il suo piano di pace: il piano Kerry. Abbiamo già discusso in questa sede come una delle falle della diplomazia del conflitto sia proprio rappresentata dal ruolo degli Stati Uniti, che non possono fungere da mediatori credibili.

A rafforzare questa tradizione di schiacciante asimmetria delle parti sedute al tavolo, in ultimo, vediamo la nomina di Martin Indyk, fino a ieri ambasciatore americano in Israele, quale Chief negotiator nelle trattative rilanciate dall’amministrazione americana. Indyk è una vecchia conoscenza della diplomazia americana in Vicino Oriente. Fu infatti nominato nel 1993, dall’allora presidente Clinton, capo del Middle East Office del National Security Council e assistente speciale del segretario di Stato per la politica nordamericana in Vicino Oriente. Già allora non era sconosciuta la sua vicinanza ad Israele. Nato a Londra da famiglia ebraica, Indyk è ex direttore del WINEP (Washington Institute for Near East Policy), una think thank contigua all’AIPAC (l’American-Israeli Public Affairs Committee) – per la quale Indyk aveva già lavorato nel 1982 – la più influente lobby israeliana presente negli Stati Uniti, definita da Edward W. Said, “un fronte compatto in grado di distruggere una carriera politica staccando un assegno”, vera e propria bussola nell’orientare la politica estera della Casa Bianca1. Oggi conserva il suo ruolo nel WINEP, dove è al vertice del dipartimento dedicato alla politica estera. Stando ad un recente sondaggio, il 74% dei palestinesi non pensano che gli Stati Uniti siano più credibili rispetto al passato come mediatori per il raggiungimento di una soluzione al conflitto2.

Premesso tale doveroso richiamo alla ripresa dei negoziati sempre nel segno di una simbiosi di interessi israelo-americani, ciò che più interessa in questa sede è la presentazione di un paradigma alternativo sul quale fondare negoziazioni ed eventuali soluzioni: il principio “uno Stato per due popoli”. Tale principio – non nuovo a livello storico ma sepolto da quello dei “due Stati due popoli”, che ha monopolizzato dibattito e relativo tavolo politico – è oggetto di un sempre maggiore interesse tra accademici ed attivisti politici. Ciò deriva in primo luogo dalla presa di coscienza dell’impietoso fallimento, come già detto, di un “processo di pace” – fondato sul principio dei due Stati -  che, dati alla mano, non ha fatto altro che aggravare contesto e fattori alla fonte della critica situazione odierna: la crescente e quotidiana colonizzazione israeliana in Cisgiordania e a Gerusalemme est, la guerra di Gaza del 2009 e le fratture interne alla parte palestinese sono solo alcuni degli elementi che oggi rendono altamente improbabile una via d’uscita dall’impasse. Ciò che, in seconda battuta, rende assai fallace il paradigma dei due Stati, chiama in causa la sua stessa matrice storica. Come sottolinea lo storico israeliano Ilan Pappe, “l’idea della soluzione dei due Stati fu sempre la soluzione preferita del sionismo pragmatico, che guidò la comunità ebraica in Palestina dalla fine dell’ ‘800 e le sue idee fondamentali indirizzano ancora oggi il sistema politico israeliano. Il sionismo pragmatico è stato l’unico attore sul campo a dare sostanza all’idea dei due Stati, laddove l’OLP, anche quando ha sottoscritto l’idea, ha dovuto comunque accettarne l’interpretazione sionista”. Un’interpretazione che è stata fatta propria dalle potenze esterne che si sono confrontate con Israele ed il popolo palestinese, con un concetto di partizione che ha in sé connotazioni evidentemente funzionali agli interessi israeliani: “Gli attori internazionali di rilievo – prosegue il professor Pappe – e gli Stati uniti in particolare, hanno seguito l’interpretazione sionista e continuano a seguirla. Essa implica che la soluzione dei due Stati sia fondata sul totale controllo israeliano di quella che era l’intera Palestina mandataria: lo spazio aereo, le acque territoriali ed i confini esterni. Essa prevede anche una limitata sovranità palestinese entro quelle aree che non interessano a Israele (la striscia di Gaza e meno della metà della Cisgiordania). Tale sovranità sarebbe peraltro limitata anche nella sostanza: un governo smilitarizzato avrebbe infatti scarsa voce in capitolo riguardo a difesa, esteri e finanze”3.

Furono i primi coloni ebrei intorno agli anni venti del secolo scorso a proporre l’idea di uno Stato unico binazionale, laddove la presenza ebraica era ancora ridotta e la soluzione risultava dunque accettabile per i primi immigrati. Nel 1947, il paradigma dello Stato unico comparve anche quale opzione internazionale nelle discussioni dell’UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine). In questa sede i Paesi non allineati a USA ed Unione Sovietica elaborarono l’idea di uno Stato unitario democratico in cui la cittadinanza non sarebbe stata determinata dall’appartenenza etnica o dalla nazionalità. L’idea, una volta entrata nel rapporto di minoranza dell’UNSCOP, fu sottoscritta dalla metà dei membri dell’Assemblea Generale di allora, prima di fare spazio all’idea della spartizione che si realizzò nella risoluzione 181 del 29 novembre del 19474

Un elemento che rende la realizzazione di uno Stato binazionale materialmente praticabile e che non può essere trascurato, risiede nell’aspetto demografico. In Israele/Palestina, di fatto, una realtà demografica per uno Stato unico già esiste. Secondo dati della Banca Mondiale, infatti, nel 2008 il numero di ebrei e palestinesi sull’intero territorio di Israele/Palestina era lo stesso, 5,6 milioni (i palestinesi così ripartiti: 1,7 milioni all’interno dello Stato di Israele, 3,9 milioni a Gaza ed in Cisgiordania). Entro il 2015, i palestinesi saranno addirittura la maggioranza in virtù del loro maggiore tasso di crescita rispetto alla popolazione ebraica5

Uno dei maggiori ostacoli alla possibilità che la costituzione di uno Stato unico democratico diventi una soluzione politica concreta è rappresentato dalla sua permanenza, ad oggi, all’interno di una ristretta cerchia di intellettuali ed attivisti politici, ancora lontano, dunque, dal costituire un movimento di massa in grado di arrivare ai decision-makers. L’idea, inoltre, è ancora impopolare all’interno della comunità internazionale ed in gran parte del mondo arabo, ivi compresa la leadership palestinese. Nonostante alcuni membri dell’establishment palestinese abbiano fatto propria l’idea di uno Stato unico, perlopiù in maniera estemporanea, essa non si è mai trasformata in un serio progetto politico. La longevità della soluzione dei due Stati ha avuto le sue inevitabili ripercussioni anche sulla stessa configurazione della lotta del popolo palestinese, fino ad oggi orientata alla creazione di uno Stato proprio. Si tratterebbe dunque di convertire in qualche modo l’obiettivo della lotta dal perseguimento di una “statualità” propria, fino ad ora un miraggio, ad una pienezza di diritti all’interno di uno Stato democratico6.

Credo fermamente che oggi l’opzione di un unico Stato rappresenti la sola soluzione al conflitto afferma ancora Ilan Pappe – Penso che chiunque risieda per più di cinque minuti nel territorio della Cisgiordania si renda conto che non c’è materialmente spazio per uno Stato palestinese indipendente. Il principale successo della campagna per uno Stato unico è quello di offrire  un nuovo dibattito su un’alternativa. Il secondo vantaggio risiede nel totale fallimento del tentativo di dividere la Palestina, in vari modi e forme. Ora sappiamo che ciò non potrà mai funzionare ed è necessario trovare un’alternativa”7.


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