Una separazione, Rai 5, ore 23,15.
Uno dei migliori film degli ultimi anni, ed è made in Iran. Non aspettatevi il solito film iraniano lento e maestoso alla Kiarostami. Non aspettatevi nemmeno un film etnico sul chador, gli imam ecc. ecc. Una Separazione ha sì le sue radici a Teheran, ma è una storia universale. I casi della vita fanno interagire una coppia dei quartieri borghesi con una coppia dei quartieri bassi. Accadono piccole cose senza (apparente) importanza, che però innescheranno un effetto a catena letale. Alla fine nessuno e niente sarà più come prima. Un film (di dialoghi perfetti e ferreo mestiere teatrale) in cui tutti mentono, dissimulano, ingannano, hanno un obiettivo segreto, una strategia. Orso d’oro al Festival di Berlino. Oscar come migliore film in lingua straniera. Voto 9Una separazione, di Asghar Farhadi. Interpreti: Leila Hatami (Simin), Peyman Moaadi (Nader), Shahab Hosseini (Hodjat), Sareh Bayat (Razieh), Sarina Farhadi (Termeh), Babak Karimi (Giudice), Ali-Asghar Shahbazi (Padre di Nader).Dopo aver vinto l’Orso d’oro alla Berlinale 2011, Una separazione non si è più fermato. Acquistato in mezzo mondo,votato dai critici a Toronto come uno dei migliori film del festival, vincitore del Golden Globe e dell’Oscar come migliore film straniero. Il sito Rotten Tomatoes, che fa la media delle valutazioni dei critici nordamericani, gli assegna un indice record di gradimento del 100%.
Dunque va preso molto sul serio, questo film made in Iran. Un film che poi alla visione mantiene tutte le promesse e anche qualcosa di più. Uno dei migliori del 2011, che pure di cose belle ne ha fatte vedere al cinema, da Drive a The Tree of Life a Shame. Non aspettatevi il solito film iraniano pensoso e lento alla Kiarostami o di abbagliante estetismo e intriso di oscuri simbolismi alla Mohsen Makhmalbaf, tanto per citare due maestri riconosciuti di quel cinema. Qui si abbandona ogni poeticismo, ogni spossante ricerca stilistica e si va dritti al cuore delle cose da dire e da mostrare. Il quarantenne regista Asghar Farhadi, che già con About Elly si era fatto conoscere in mezzo mondo, appartiene molto di più alla scuola del realismo quotidiano che a quella del cinema altissimo e rarefatto (e a volte irrespirabile). Venendo dal teatro, costruisce un film che è innanzitutto un film parlato, di dialoghi perfetti, con personaggi delineati come Dio comanda, e attraverso la scrittura, l’uso delle parole, costruisce un intreccio a molte voci, con molti personaggi che si intersecano, senza però mai perdere il filo e delineando una storia compatta e conchiusa. Questo è teatro filmato, nel senso migliore. Di Una separazione si potrebbe estrarre il testo e rappresentarlo su un qualsiasi palcoscenico di qualsiasi parte del mondo, anzi sembra già predisposto allo scopo. Ma è anche cinema, attenzione. Cinema che si mette al servizio dei suoi personaggi, delle loro parole, della storia, cinema che non prevarica mai la materia raccontata, che non cerca l’esibizione narcisistica dello stile, ma solo la funzionalità e la massima efficacia.
Macchina da presa mobile, leggera, come ormai si usa (e anche abusa) a tutte le latitudini, mdp sempre usata da Farhadi con sapienza per seguire i personaggi, inquadrare ambienti, restituire la realtà. Non si avverte la presenza né dello scenografo né tantomeno del costumista, il che vuol dire (se ci sono) che sono così bravi e convincenti nel riprodurre la vita da sparire e non farsi notare, il che è il massimo. Abituati come siamo a una estenuata ricerca formale anche in film medi o mediocri dove la mano dello scenografo e pure dell’art buyer l’avverti eccome, all’inizio di Una separazione si rimane abbastanza sconcertata e spiazzati dalla (apparente) povertà della messinscena, facce qualunque, vestiti qualunque, case e altri luoghi molto qualunque, trascurati e dimessi com’è trascurata la vita, e in certi casi ti sembra di sentire la polvere depositata sui mobili o l’odore di cibo che viene dalla cucina. Poi, a uno sguardo più ravvicinato, ti rendi conto che il regista conosce bene grammatica e sintassi del cinema, che il suo linguaggio semplice e il suo realismo dimesso non sono sciatteria ma ne stanno anzi agli antipodi. La prima scena, ad esempio. I due coniugi Nader e Simin se ne stanno seduti davanti al giudice (che non vediamo ma di cui sentiamo la voce), ripresi frontalmente dalla cinepresa, e l’effetto è di moltiplicare il senso di verità di quanto dicono e il suo impatto su di noi.
Quello di Farhadi non è nemmeno cinema del dissenso come quello del suo connazionale Jafar Panahi, condannato per il suo lavoro e l’adesione alla Rivoluzione verde a sei anni di carcere (appena confermati) con il divieto di girare altri film. In un paese in cui molti cineasti sono stati costretti all’esilio oppure vengono osteggiati e perseguitati (non solo Panahi, ma anche il suo collaboratore Mojtaba Mirtahmasb), un paese in cui un’attrice è appena stata condannata a novanta frustate e a un anno di carcere (Marzieh Vafahnmer), il regista di Una separazione si astiene da un cinema esplicitamente anti-regime e di denuncia, anche se i sotterranei conflitti sociali e privati che ci fa vedere non fanno certo di lui un cantore dell’Iran degli imam. Per una dichiarazione rilasciata a sostegno di alcuni suoi colleghi caduti in disgrazia a Farhadi è stato proibito per un po’ di girare film, ma il divieto è poi caduto quando ha presentato le sue scuse. Come chiamarlo il suo, cinema della zona grigia? Non sempre è una colpa un cinema che non si espone nella denuncia, e non tutti si è eroi, e poi forse le cose si possono anche cambiare un po’ anche standoci dentro e non fuori. Anche se Una separazione è stato ufficialmente designato dall’Iran come suo rappresentante per il prossimo Oscar al migliore film straniero, non si può proprio dire che sia un’opera di propaganda, e Farhadi un autore di regime. Pur non facendo la voce grossa, il regista, presentando realisticamente un quadro di vite complicate, ci fa vedere e ci fa capire come le tensioni allignino anche da quelle parti, e che non basta un sistema politico islamicamente corretto (o soi disant tale) a garantire la felicità di chi ci vive.
La storia raccontata da Farhadi è molto iraniana e legata al suo mondo, ma nello stesso tempo universale. Accade a Teheran, ma potrebbe accadere – basterebbe variare qualche dettaglio – in ogni altra parte. Nader e Simin sono sposati da quattordici anni, hanno una figlia, Termeh, di undici anni, sveglia, intelligente, sensibile, molto studiosa e legata alla famiglia. Ma nonostante continuino a rispettarsi e forse anche ad amarsi, Nader e Simin si presentano in aula a chiedere il divorzio. Meglio, è lei, Simin, a volerlo. Spiega al giudice perplesso (e agli spettatori altrettanto perplessi) che avendo finalmente ottenuto il permesso di lasciare l’Iran, vorrebbe andarsene con la figlia. Solo che il marito Nader non ha nessuna intenzione di espatriare (per questo lei vuole la separazione, per potersene andare anche senza di lui) e si rifiuta di seguirla, avendo un padre anziano che soffre di demenza senile e bisognoso della sua presenza. “Ma che differenza fa per lui se stai o te ne vai? Tanto non ti riconosce neanche più”, gli dice Simin. “Ma io riconosco lui, io lo so che lui è mio padre”, è la risposta impeccabile di Nader. Già da questo scambio di battute capiamo che il film non farà sconti a nessuno, che ogni personaggio ci verrà presentato per quello che è, nella sua verità, per quanto sgradevole possa essere. Capiamo anche che Farhadi non è indulgente, che il suo non è cinema di facili consolazioni e sentimenti. Quello che segue mantiene in pieno la durezza del prologo. Una separazione mette in scena una guerra di attrito tra i suoi personaggi, nella quale tutti hanno un obiettivo da raggiungere, tutti ricorrono a mezzi non sempre leciti per spuntarla, tutti nascondono qualcosa e, se non mentono, dicono solo mezze verità. Anche in famiglia, nella stessa famiglia, anche nella coppia, si gioca una partita individuale che non sempre tiene conto degli interessi dell’altro, degli altri, anzi. L’affresco di Farhadi, perché tale è Una separazione, ci consegna un’umanità che mente, manipola, inganna, mossa di volta in volta dalle migliori o peggiori intenzioni.
Il giudice (giustamente) stabilisce che le ragioni addotte da Simin non sono sufficienti e non concede al momento la separazione. Ma non è armistizio in famiglia. Simin fa le valigie e torna dai suoi, lasciando il marito Nader con la figlia Termeh e il padre anziano malato di Alzheimer. È proprio per assisterlo quando lui è fuori per lavoro che Nader ingaggia come badante, su consiglio di Simin, una donna di un quartiere povero, Razieh, alla disperata ricerca di soldi e piena di problemi, a partire dal marito disoccupato e da una bambina da tirar su. Sembra la persona giusta, ma è da questa scelta (e dalla scelta della moglie di andarsene di casa) che si innesca una sequenza imprevedibile di eventi, prima minimi poi sempre più gravi, destinati a sconvolgere la vita di tutti. Alla fine, niente sarà più come prima.
Quello che lascia a bocca aperta è l’abilità con cui Farhadi costruisce la sua vicenda, aumentando man mano la tensione e il senso di minaccia, accumulando dettagli apparentemente insignificanti che però scopriremo poi si salderanno in una gabbia da cui i protagonisti non potranno scappare. Sembra l’applicazione drammaturgica della teoria delle catastrofi (e del caos), secondo cui anche un microevento può per un effetto a catena produrre mutamenti radicali. Tutto incomincia a complicarsi maledettamente quando il povero Nader, tornando in anticipo dal lavoro, trova il padre legato e agonizzante. Si rende conto che la badante Razieh l’ha abbandonato e che è uscita di casa per un qualche motivo, e quando lei ritorna la affronta a muso duro per farsi dire cos’è successo. Esasperato dalla sua reticenza (Razieh nega ostinatamente anche l’evidenza dei fatti) Nader perde la testa, la licenzia, la spinge malamente fuori dalla porta. Disastro. Perché, si scoprirà, Razieh era incinta, anche se non l’aveva detto a Nader al momento di essere assunta, e per colpa di quella spinta sostiene di aver perso il bambino. Nader viene denunciato da lei e dal marito, finisce davanti al giudice e rischia una condanna a quattro anni di carcere. Tutto si accelera, si complica, si avvelena, si drammatizza. La coppia dei quartieri popolari si muove con spietata determinazione, con una rabbia che non ti aspetteresti, come se mettendosi contro Nader e la sua famiglia cercasse un riscatto sociale e un risarcimento non solo economico. Nader se la deve vedere con la moglie, sempre ostile, e con quei due che gli muovono guerra e che vogliono letteralmente distruggerlo (il marito di Razieh, disoccupato rancoroso e aggressivo, con la sua furia cieca in cerca di un bersaglio qualsiasi, di una qualsiasi vittima, è la figura più potente e allarmante del film, e non la si dimentica). Meglio non dire come finirà la guerra, diciamo solo che sarà la giovane figlia di Nader e Simin a doversi fare carico di una responsabilità per lei troppo grande e a prendere una decisione che altri non hanno voluto o potuto prendere.
Il film ci porta dentro l’Iran di oggi, anche se il suo scopo non è di fornire un quadro social-politico. Vediamo come si amministra la giustizia: in aule sovraffollate e precarie dove tutti urlano, con però giudici che sanno il fatto loro e discernere con grande sapienza ed equilibrio (sono le leggi a essere molto dure e restrittive, non chi le applica). Le classi sociali esistono, eccome, anche in una repubblica ismamica. La coppia Nader-Simin, lui fnzonario di banca lei insegnante di qualcosa che non sappiamo in una qualche scuola, appartengono a un ceto medio-alto urbano che vive in case decenti anche se non lussuose, ha l’accesso a consumi abbastanza sofisticati (compresi quelli culturali). Le donne di questo ceto medio-alto portano sì il velo, ma sono pashmine colorate e di un certo stile che lasciano intravedere i capelli, mentre le donne del popolo come Razieh sono più fortemente condizionate dalla religione e indossano il rigido chador marrone-nero che le copre completamente, a parte il viso. Quando l’anziano papà malato di Azheimer si urina addosso Razieh non può cambiarlo perché a lei, donna, è proibito toccare un corpo maschile che non sia quello del marito, sicchè la poveretta è costretta a telefonare a qualcuno che immaginiamo essere un esperto di norme islamiche (un imam? altri?) e gli chiede consigli sul che fare.
Stranamente in Una separazione c’è una qualche affinità con Carnage di Polanski (qualche, non molte). Anche qui c’è un confronto-scontro tra due coppie – quella boghese composta da Nader e Simin e quella proletaria di Razieh e marito – che innesca una deflagrazione destinata a cambiare la vita di tutti. Che poi, a pensarci bene, anche Yasmina Reza, l’autrice del testo teatrale da cui Carnage è stato tratto, nonché cosceneggiatrice del film, qualche connessione con l’Iran ce l’ha, essendo sì francese, ma di famiglia ebraico-persiana. Se però il massacro tra i quattro del film di Poanski resta in fondo, anche se spinto, un inoffensivo gioco borghese che non cambia radicalmente l’esistente, qui in Una separazione gli effetti sono letali, e le cose maledettamente molto più serie.
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