“In tanti anni non gli era mai capitato di sbagliare l’uscita, ha saltato il casello, forse quel camion che aveva davanti, forse perché stava pensando a quella storia di anni fa a come era finita secondo lui per sbaglio, per un fraintendimento, per incuria, a quella ragazza di ventitré anni, e adesso chissà dov’è, con chi è.
Esce alla successiva, quella che prendeva sempre quando tornava dall’università tanto tempo prima, tornava a casa in una città piccola, lontana dall’autostrada.
La strada non è cambiata, a destra le montagne si ritagliano il loro spazio nell’azzurro, le case di campagna sono le stesse, i capannoni sono gli stessi, solo più vuoti. Si ricorda le traverse secondarie, le macchie delle acacie, i pioppi, le curve, le salite e le discese, i semafori diventati rotatorie, si ricorda la chiesa di mattoni rossi che ha sempre voluto vedere dentro, ma ha rimandato ogni volta a un’altra volta.
Rimanda anche adesso che è in ritardo, accelera appena e sulla sinistra vede il pilastro grigio, lì dove la strada si piega blandamente a destra, in piano.
Non ha mai capito cosa fosse, quel pezzo di muro, o perché fosse lì, forse faceva parte di un sovrappasso o di un vecchio acquedotto, comunque di qualcosa che era stato troncato per far passare la strada.
Nel grigio, sopra le erbacce e i rovi, vede la macchia scura.
Si ricorda i due corpi distesi affiancati, lui e lei, sul tavolo dell’obitorio. A lui, anche da morto, era cresciuta una barba leggera.
Tornavano, erano stati a vedere i mobili, sceglierli, forse ne stavano parlando, forse troppo veloci, o euforici, o l’asfalto lucido, o un pazzo in direzione opposta.
L’uomo se li ricorda solo adesso, cerca di ricordarsi i loro nomi, non se li ricorda, invece si ricorda di ogni volta che era passato di lì e aveva guardato la macchia che era diventata sempre più scura, e oggi è ancora lì, sfumata da un sottile strato verdastro, e chi vuoi che ci faccia caso ormai, ormai non dice più niente a nessuno.”
Paolo Bianchi giornalista e scrittore
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Ogni volta che torno a casa, ogni volta, come oggi, che ripercorro quella strada, rivedo l’incidente che portò via un ragazzo e una ragazza, via dalla vita, via dai sogni, via dal loro presente.
Quando Roberta se ne andò, 30 anni fa, più o meno, non ricordo, eravamo tutti molto giovani. Lei era tra tutte noi amiche una delle prime con una relazione stabile, parlava di matrimonio. Noi eravamo adolescenti quasi adulti e quel lutto fu il primo, per tutti. Fu lo stacco tra la vita e la morte, tra l’illusione e la realtà.
Da quel giorno nulla fu più come prima, quel giorno fu il passaggio dai giochi alla vita vera.
E non fu una cosa bella. Ed è ancora vivo se, ogni volta che passo davanti a quel pezzo di muro, lasciato lì, senza un motivo, mi ricordo che quello fu il giorno in cui tutti cademmo, per la prima volta, dal precipizio.
Chiara