Il 6 gennaio scorso, attraverso le pagine di Repubblica, l’autorevole critico musicale Gino Castaldo lanciava la sua personalissima provocazione: «Ma allora è proprio finita? I giovani trovano luoghi e ragioni per nuove proteste, che si chiamino Indignados o Occupy Wall Street, ma curiosamente, forse per la prima volta nella storia moderna, non esiste una colonna sonora che racconti di queste nuove esperienze. Il rock? Latita, è assente, così come sta praticamente scomparendo dalle classifiche, lasciando il posto a un dominio pressoché assoluto del pop commerciale».
L’articolo suscitò non poche reazioni: chi trovava giusto allestire il Requiem del rock, chi si affannava a giustificare questa evoluzione ribadendo il concetto che le classifiche non hanno mai determinato la portata reale di un genere che poco si confa alle “charts” o ai festival televisivi. Quasi parallelamente (seppur a distanza di mesi dall’articolo di Castaldo), in questi giorni si sta assistendo al ritorno di una di quelle band che hanno deciso e creato quasi tutti i crismi del genere in questione: i Led Zeppelin di Robert Plant e di Jimmy Page. La leggendaria formazione inglese, infatti, ha progettato di cristallizzare la mitica reunion del dicembre 2007 alla O2 Arena di Londra attraverso un film-documentario che verrà proiettato nelle sale di tutto il mondo per un giorno solo, il prossimo 17 ottobre. L’evento del 2007 segnò un record, stabilendo il maggior numero di richieste per un’esibizione dal vivo: ne arrivarono oltre 20 milioni, per “soli” 18mila biglietti a disposizione.
Celebration Day, così è stata chiamata l’operazione, è stata pensata come un’iniziativa nata per ricompensare chi non ha potuto presenziare all’evento di Londra: in questo modo i milioni di fan potranno gustarsi le emozioni di Page e soci comodamente seduti in sala, con tanto di dolby surround. Nel frattempo, in questo caldo autunno dai sapori musical-novecenteschi, i Radiohead di Thom Yorke hanno finalmente dato il via al tanto atteso tour italiano, producendo la solita ondata di psicosi di massa.Quel che viene da chiederci, alla luce delle considerazioni generali sul futuro del rock, è come sia possibile restare incatenati a band che, per quanto mitiche, rappresentano scorci di un passato apparentemente lontano. Per carità, di solito è prassi rimanere affascinati dal passato, dal vintage e dai ricordi che richiamano la coscienza, le emozioni, e gli attimi chiusi nei cassetti. Qui siamo di fronte ad una scelta guidata da impulsi squisitamente artistici: il rock piace ancora, e piacerà sempre. Il processo, però, è a ritroso. Come se ci si trovasse davanti a un cartello, un «Go Back!» senza appello alcuno.
I Led Zeppelin oggi
Certamente i Led Zeppelin, come i Beatles, i Rolling Stones, gli Who, i Pink Floyd e tutti i mostri sacri del rock, han sempre goduto del seguito meritato. Questo è vero. La differenza che però si scorge in questo inizio di seconda decade di millennio è l’approccio verso il passato. Siamo stati infatti abituati a vedere, a vivere, a subire tagli netti tra un decennio e l’altro: gli anni Settanta spazzarono via il rockabilly e le ballate scanzonate dei Sessanta, gli anni Ottanta segnarono lo spartiacque tra analogico ed elettronico, rifiutando la complessità del rock da Woodstock e ponendo l’accento sui synth e sulla semplificazione da palco, modelli poi rielaborati ma al contempo repressi nei Novanta, in cui il rock nella sua forma più da garage di periferia contribuì a rinverdire i riff di chitarra elettrica o i suoni ruvidi di rullante. Insomma, ogni epoca ha setacciato, attinto e scartato gli elementi di quella precedente, non rinunciando a proporre qualcosa di innovativo. Oggi invece, assistiamo ad una continua rincorsa nel rimodellare il passato, rimanendo però ancorati fedelmente ad influssi retrò, non solo nella proposizione prettamente tecnica, ma anche in quel che riguarda un contorno più complessivo, quello della moda, della tendenza, della scelta del messaggio. Apparentemente, dunque, nulla di nuovo: per dirla in una parola, “saturazione”.
Una saturazione figlia illegittima di molti genitori: da un lato vale il discorso di Castaldo sulle charts e sul pop commerciale, anche se solo fino ad un certo punto. Negli anni ottanta, ad esempio, Michael Jackson e Madonna dominavano le charts, ma questo non impediva alle varie rock-band di raccogliere comunque proseliti (si pensi agli AC/DC, ai Guns ‘N Roses). Diversa è la situazione oggi, dove il vocabolo “pop” mescola prodotto artistico e popolarità, spesso esulando da uno specifico concetto di genere. E così, il rock muore non perché non esiste più, ma perché entrato a far parte della vetrina da “avanspettacolo”, mortificando ogni suo intento ribelle e anticonformista. Gli stessi Led Zeppelin sembrano indirizzati verso la nuova era, con operazioni di marketing degne della più stilosa pop band: «Quando siamo saliti sul palco a Londra per quel concerto non avevamo idea che avremmo poi prodotto questo film – ha dichiarato Jimmy Page - ma il materiale era lì e quando lo abbiamo rivisto abbiamo capito che avrebbe avuto senso utilizzarlo». La riflessione dunque nasce da un contesto in cui gli interpreti non sono più gli stessi, proprio perché è il quadro generale ad essere cambiato: in un mondo in cui il rapper del ghetto ha soppiantato il ruolo del cantautorato nell’immaginario della denuncia sociale, e dove migliaia di realtà “indie” (dove “indie” sta per indipendente) si accavallano partorendo prodotti che han tutto all’infuori dell’indipendenza artistica. Nel suo famoso pezzo, Castaldo scrisse che «I giovani trovano luoghi e ragioni per nuove proteste, che si chiamino Indignados o Occupy Wall Street, ma curiosamente, forse per la prima volta nella storia moderna, non esiste una colonna sonora che racconti di queste nuove esperienze». Questa è un’analisi imprecisa: la colonna sonora dei movimenti c’è. La differenza è la genesi: una volta, la musica alimentava il dissenso; oggi, il dissenso produce musica da major: basti pensare alla compilation di Occupy, prodotta come se si trattasse di una soundtrack di un best seller da sala. Dunque, il problema non è del rock, che non riesce a smuovere le coscienze. Il problema è che la musica si è artefatta in processo mediatico, abbandonando le grandi adunate sui prati, le sciarpe lunghe, la tradizione della ricerca, dell’ascolto non frenetico: quello da negozio di dischi, per intenderci. Le dimensioni ormai si sono ridotte, e l’ossigeno manca: per questo, i Led Zeppelin rimarranno nell’immaginario per molto tempo. E così i Radiohead (almeno fino ad un certo punto della loro carriera). E così i Clash. E così mille altri interpreti di una musica che lasciava respirare, che spaziava su distese da grande adunata. Oggi, invece, ti accende la luce sulla camera da letto del vicino, rimbomba in quattro mura di un club: il negozio di dischi non è più avamposto del tuo mondo, ma cimelio di un universo che non c’è più. Oggi si predilige la quantità a scapito della qualità, in una compressione imposta dalle leggi del mercato. E così, il rumore della puntina scandiva il messaggio, mentre il lettore multimediale aumenta l’ingordigia di pensare al pezzo successivo, come se si fosse perennemente insoddisfatti. Nulla da dire contro la tecnologia, per carità. Lasciamo però che il contenitore non prevarichi il contenuto: altrimenti, tiriamo fuori “London Calling” o “Led Zeppelin III”, e prepariamoci ad incontrarci lì dentro, per sempre.(Pubblicato su Gli Altri Online del 25 settembre 2012)