Magazine Cinema
di Ermanno Olmi (Italia, 2014)
con Claudio Santamaria, Alessandro Sperduti, Francesco Formichetti, Andrea Di Maria, Domenico Benetti
durata: 80 min.
★★★★☆
Esiste un modo efficace per raccontare una guerra? Ermanno Olmi ci aveva già provato (riuscendoci alla grande) con Il mestiere delle armi (vedi recensione), quasi quindici anni fa. Il film raccontava di una guerra lontana e di un momento epocale della storia, il passaggio dalle armi bianche alle armi da fuoco, che cambiò non solo il modo di combattere ma i destini del mondo intero. La guerra combattuta da Joanni de' Medici era, a suo modo, un atto di eroismo e ardimento. La guerra 'moderna', quella fatta con i cannoni e le bombe, si trasformò invece nel più vile atto di barbarie e stupidità umana: per uccidere bastava premere un grilletto, anche il più codardo dei soldati poteva farlo. Dal giorno in cui il valoroso capitano 'de Medici era morto tra sofferenze atroci, sventrato da una palla di cannone, il coraggio aveva lasciato il posto alla follia.
Così, in torneranno i prati (scritto con l'iniziale minuscola, volutamente), Olmi racconta la Prima Guerra Mondiale nell'unico modo possibile: far sentire, letteralmente, lo scoppio delle bombe e il silenzio che precede e segue la deflagrazione. Un silenzio fatto di terrore e morte, angoscia e preghiera. Ma non c'entra molto la religione: quando vedi la morte in faccia cerchi sempre di affidarti a qualcuno, come fa capire il soldato che invita i suoi sottoposti a contare i secondi tra una bomba e l'altra, ringraziando ogni volta Dio per essere ancora vivi. In quei silenzi e in quei boati c'è tutta la disumanità della guerra, in un film che non è solo dichiaratamente pacifista (e non poteva essere altrimenti), ma anche fortemente scomodo: il regista mette in chiaro, fin da subito, che non esistono nè le guerre 'giuste' nè 'giustificate': non c'è alcun eroismo nella trincea, contrariamente a quanto abbiamo letto nei libri di storia... i soldati sono ragazzi semi-analfabeti, poveri, impauriti. La loro unica speranza è che la guerra finisca presto per poter tornare a casa. Indipendentemente, si badi bene, da chi la vincerà: fosse pure quel nemico sconosciuto, invisibile, che li obbliga a una logorante guerra di posizione...
Olmi ci fa rivivere il primo conflitto mondiale prendendo ad esempio un avamposto italiano del Nordest: siamo nel 1917, altopiano di Asiago, a duemila metri d'altezza. Nascoste da quattro metri di neve, ad appena qualche decina di passi di distanza, ci sono le trincee nemiche, che non si vedono mai. Il plotone è piegato oltre che dalla snervante attesa anche da un'epidemia di febbre emorragica che sta falcidiando le truppe. Nei giorni che precedono la disfatta di Caporetto, due ufficiali (un maggiore esperto e un giovane tenente, alla prima esperienza al fronte) arrivano al presidio portando un ordine impossibile da eseguire: raggiungere strisciando sulla neve un punto di osservazione all'aperto per spiare le mosse dell'avversario. E' un ordine suicida: il primo soldato muore falciato dai cecchini dopo pochi secondi. Il secondo preferisce spararsi in bocca anzichè uscire. Poi iniziano i bombardamenti, tremendi, che la nuova tecnologia digitale 4k fa apparire più veri del vero.
Come ne Il mestiere delle armi, Olmi ci dice anche in questa guerra, come in ogni guerra, ci sono due diversi piani di lettura: da un lato la guerra dei disperati che vengono massacrati al fronte. Dall'altro la guerra di chi sta dietro una scrivania, nei palazzi del potere, che dispone ordini insensati senza avere la più pallida idea delle bestiali condizioni di vita dei soldati. In soli ottanta minuti, carichi di tensione e angoscia ma anche di atmosfere e suggestioni, Olmi costruisce un film di chiaro impianto teatrale (si vedano i primi piani e gli sguardi fissi dei protagonisti che guardano la mdp durante i monologhi) che emoziona e coinvolge, spaventa e ci fa trepidare, riesce a indignarci ma anche ad affascinarci grazie alla splendida fotografia seppiata di Fabio Olmi (figlio del regista), che documenta lo sguardo magniloquente di una natura fiabesca eppure amarissima,
Già, la natura. Quella natura gelida (fisicamente e metaforicamente) che assiste indifferente a dei piccoli uomini che si uccidono tra loro. Molti critici recensendo questo film e volendo per forza cercare paragoni hanno scomodato Kubrick, Weir o Renoir, tutti più o meno a sproposito. Eppure al sottoscritto pare che il collegamento più evidente sia quello con un certo Terrence Malick, che nel suo capolavoro La sottile linea rossa aveva sottolineato proprio questo aspetto: l'uomo è niente in confronto alla Natura e su quegli altipiani imbiancati, ora sporcati dal sangue delle vittime, presto tornerà il sole, che scioglierà la neve e farà risplendere i prati, come se nulla fosse accaduto.
Tocca a noi, e solo a noi, mantenere il ricordo.
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