Però una volta ben sveglia (!) sono entrata nello spirito del film. Uno spirito fatto di cupezza e dolcezza al contempo.
Ermanno Olmi riesce a portarci per un'ora e mezza nel buio della trincea, tra senso di solitudine, noia, terrore, poesia. Visivamente il film è bellissimo; le montagne e gli alberi completamente coperti di neve e illuminati dalla luna, dove di notte si muovono furtivi gli animali, è un paesaggio quasi fiabesco, magico, irreale.
Bella ricostruzione, a metà tra lo storico e il poetico.
Di questo paesaggio sono spettatori e prigionieri un manipolo di soldati che presidia la trincea, in uno stato di sospensione palpabile, che metterebbe a dura prova anche le menti più stabili. Il nemico è vicinissimo (un soldato dice che talvolta sembra quasi di sentirne il respiro), eppure è invisibile e silenzioso, fino a quando non si scatena l'inferno dei cannoni e dei mortai che uccide gli uomini come topi in queste vere e proprie tane scavate nella terra.
E in questa attesa infinita, sospesa tra la vita e la morte, ognuno reagisce come può, chi con la contemplazione, chi con la nostalgia, chi con la musica, chi con la pazzia.
Non c'è retorica nel film di Olmi. Però tutto appare sensato e insensato al contempo.
Alla fine resta forte un senso di contrattura narrativa ed emotiva, che mai si spiega pienamente e che per questo forse non consente alcuno scioglimento della tensione.
Un film rispetto al quale non si riesce ad essere totalmente all'interno, ma del quale non si può dire di rimanere totalmente esterni. Forse proprio come della guerra di cui Olmi racconta, quella guerra che spazzerà una generazione e resterà per sempre nella mente di chi è tornato, ma rischia di essere dimenticata da chi non l'ha vissuta.
Voto: 3,5/5