Magazine Cultura

“Torniamo a Bomba!”

Creato il 28 novembre 2013 da Silcap

di Mario Setta

ISSN  2281-6569
SFI, Sezione di Sulmona Giuseppe Capograssi
[online]

“Torniamo a Bomba” è un’espressione divenuta luogo comune, per riprendere il discorso lasciato interrotto. Pare sia stata pronunciata da Silvio Spaventa, durante un suo intervento in Parlamento. C’è, anche, chi sostiene che esistesse già nel medioevo al gioco del nascondino. Ma “tornare a Bomba” è soprattutto un impegno a ricordare il passato, a riesaminare tempi e uomini che hanno segnato nel bene e nel male la storia.

Bomba (CH)

Bomba (CH)

Bomba è un piccolo paese in provincia di Chieti che ha dato i natali a due grandi personalità della filosofia e della politica: Bertrando e Silvio Spaventa. Grandi artefici del risorgimento italiano. Uomini che hanno sofferto persecuzione e prigionia, per affermare le loro idee di libertà. In un tempo in cui abruzzesi come i fratelli Spaventa, Ottavio Colecchi, Leopoldo Dorrucci, Panfilo Serafini, Angelo Camillo De Meis si ritrovano a combattere battaglie culturali e politiche a fianco di Luigi Settembrini, Pasquale Galluppi, Francesco De Sanctis, i fratelli Poerio, Antonio Ranieri amico di Leopardi, e tanti altri amici, costretti a subire ogni vessazione dai poteri politici ed ecclesiastici.
Angelo Camillo De Meis, “filantropo generoso e sprezzantissimo del denaro”, chiamato “l’angelo dell’emigrazione”, aiutava quelli che chiamava “poveri esuli, che vivono giorno per giorno e se arrivano a campar oggi, non sanno sempre come si farà a campar domani”. “Senza una rivoluzione ideale, sarà impossibile una rivoluzione politica” scriveva Bertrando Spaventa, fratello maggiore di Silvio. Bertrando, abbandonato il sacerdozio, si occuperà di filosofia, apportando in Italia il pensiero filosofico di Hegel, soprattutto in riferimento allo Stato. In polemica con la rivista “La Civiltà Cattolica” dei gesuiti, che aveva tacciato Cesare Beccaria come “uomo d’una superficialità burbanzosa”, Bertrando Spaventa li accusa di misconoscere che altri gesuiti delle origini della Compagnia (Lainez e Bellarmino) avessero sostenuto come il vero sovrano fosse il popolo e tale sovranità popolare un diritto inalienabile.

Silvio Spaventa

Silvio Spaventa

Non solo. Ma Bertrando denuncia apertamente come la mentalità servile degli italiani, causa principale del male nazionale, dipendesse dal predominio della chiesa cattolica e del suo potere temporale. Per rigenerare la purezza del sentimento religioso sarebbe stato necessario che lo Stato riconoscesse la libertà dei vari culti e la netta separazione tra spirituale e temporale.  Problema, affrontato anche da Panfilo Serafini, coetaneo di Bertrando, nel libro “Sulla caduta della teocrazia romana”, definita “opera infernale” nella sentenza del 21 marzo 1854 che lo condannava “a venti anni di ferri”. Gioberti, che aveva proposto un ritorno al primato del pontefice con la teorizzazione del neo-guelfismo, veniva criticato aspramente da Bertrando, che scrivendo al fratello Silvio, dice: “Non mi è mai piaciuto, ma ora mi sembra un fanfarone… Una chiacchiera perpetua, un dommatismo perpetuo, una fantasticheria perpetua. Povero paese nostro!”
Sia Bertrando che Silvio, fautori dell’unità italiana, parteciperanno attivamente alla costruzione della nazione, anche se i risultati saranno piuttosto deludenti. Ma le idee sulle quali fondano il loro operato sono chiarissime: “Noi italiani abbiamo bisogno di libertà interiore, morale, religiosa, scientifica, filosofica, per poter essere liberi politicamente, esteriormente, all’aria aperta…”.

Bertrando Spaventa

Bertrando Spaventa

L’eredità culturale passerà a Benedetto Croce, nipote dei fratelli Spaventa, salvatosi miracolosamente nel terremoto di Casamicciola. La cura delle opere filosofiche di Bertrando venne affidata da Silvio a Donato Jaia e da questi all’allievo Giovanni Gentile. Sia Croce che Gentile rappresenteranno, dialetticamente, la linea di continuità d’un liberalismo culturale e politico che doveva essere “una conquista delle coscienze di tutti i cittadini” (Fernanda Gallo, “Dalla patria allo Stato”, Laterza 2012). I cittadini del piccolo paese si fregiarono d’aver dato i natali ai due fratelli, ma misconobbero Bertrando come “anima dannata”, perché aveva abbandonato il sacerdozio. In paese, la memoria di Silvio fu molto più celebrata di quella di Bertrando perché “era naturale essere fiero di un illustre statista, ma più arduo appropriarsi i meriti di un filosofo e superare la circostanza che egli fosse un sacerdote che aveva lasciato l’abito” (Elena Croce). Bertrando e Silvio non tornarono a Bomba. Ma, oggi, in quest’Italia post-fascista, post-democristiana, post-berlusconiana, nel vuoto politico, nel disastro economico e nella catastrofe del concetto di libertà, tornare a quei princìpi e all’esempio di quegli uomini è un fondamentale obbligo morale.


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