Roma, oggi. Marco (Raoul Bova) conduce un’esistenza che potremmo definire perfetta: un ottimo lavoro, una moglie bella e affettuosa, Giulia (G. Michelini), con la quale è sposato da 25 anni, un figlio.
Ma una sera, quella che dovrebbe essere la consueta conclusione della giornata assume i contorni del classico fulmine a ciel sereno: Giulia rivela a Marco che da tempo frequenta un altro uomo e vuole il divorzio, spingendolo così a lasciare l’abitazione.
Per fortuna, mentre le vicende familiari iniziano a ripercuotersi sul lavoro, Marco può sempre contare sull’amico fraterno Claudio (Ricky Memphis), compagno di liceo, scapolo e vivente ancora con la madre Giuditta (Paola Minaccioni), che ha seri problemi con l’alcool.
Giulia Michelini e Raoul Bova
A lui durante una passeggiata confida i propri patemi ed esprime un desiderio a voce alta, la possibilità di tornare indietro nel tempo, quando si era ancora studenti liceali, fare in modo di evitare il fatidico incontro con Giulia ed impostare così un nuovo futuro.
E’ un attimo, una disattenzione nell’attraversare la strada, un’auto che non riesce ad evitare lo scontro e i due amici si ritrovano catapultati nel 1990, consapevoli di essere adulti con sembianze d’adolescenti, vesti in cui appaiono ai compagni di scuola e ai familiari. Ma davvero è possibile mutare lo scorrere temporale modificandone gli eventi in base alle nostre evenienze o, piuttosto, la differenza sta nelle nostre mani, nel cambiare atteggiamenti e modalità di vita, assecondando anche la casualità e lasciando che il destino svolga comunque il suo corso?
La risposta Marco e Claudio la troveranno una volta ritornati al futuro, sempre causa incidente stradale …
Bova e Ricky Memphis
Ultima fatica dei fratelli Vanzina, Carlo ed Enrico, il primo regista e cosceneggiatore insieme al secondo, Torno indietro e cambio vita, è un film che, pur valutato al di là di qualsivoglia somiglianza (dichiarata) con Ritorno al futuro (Back To The Future, Robert Zemeckis, 1985) o tante altre pellicole dalle caratteristiche similari, anche vanziniane (più Il cielo in un stanza che i due A spasso nel tempo; d’altronde i fratelli hanno tirato in ballo nel rivelare la loro ispirazione di base anche What It, un racconto di Isaac Asimov), lascia l’amaro in bocca nel sostanziarsi come l’ennesima occasione sprecata per riacquistare un minimo di contatto con un pubblico non così disattento, come potrebbe sembrare di primo acchito, nei confronti di un intrattenimento leggero ma non inconsistente.
E’ quindi un peccato che una regia comunque agile, attenta alla valorizzazione tanto dei caratteri principali quanto di quelli secondari, sia messa al servizio di un plot narrativo spesso fermo allo stato embrionale di un’idea appena messa sulla carta, senza il coraggio di superare la barriera protettiva della “bella confezione”, sfruttando per l’ennesima volta l’effetto noto come “nostalgia canaglia” quale opportuno zuccherino per sopperire alla mancanza di una vera e propria resa empatica.Vi si può intuire una vaga analisi di come per molti italiani, se non per tutti, gli anni ’90 rappresentino una cristallizzata “era magica”, rappresentata però più da un soffio di polverina vintage (ravvisabile già nei piacevoli titoli di testa animati) che, perché no, rafforzata da una pur minima disamina storica e sociologica.
Bova e Max Tortora
Il già citato Ritorno al futuro, infatti, nel confronto ’50-’80, metteva in atto una vera e propria rincorsa, dai toni ironici e con più di una stoccata alla buona borghesia americana, fra passato e presente, vecchio e nuovo, nel confronto, ribaltato, tra problematiche dei genitori e quelle dei figli.
Mancano anche, a dare manforte, dei supporti attoriali effettivamente validi, non potendo definirsi tali quelli espressi da un Raoul Bova che una volta tornato pischello sembra esprimere uno stato di perenne disagio, e non è certo facile intuire quanto voluto vista la preminenza di una condizione pressoché catatonica. Gli si contrappongono una a volte sin troppo esagitata Michelini ed un Ricky Memphis almeno in parte, calato com’è nei consueti panni del bambacione. Migliori, almeno a mio parere, le caratterizzazioni secondarie, la Minaccioni in preda ai fumi dell’alcool, per quanto a volte lievemente manierata, e, soprattutto, Max Tortora nelle vesti del padre di Marco, avvocato un po’ cialtrone con vaghe reminiscenze sordiane, valido rappresentante di una Roma “da bere”.
Memphis e Paola Minaccioni
Una volta che i Vanzina hanno preso le distanze da pellicole vacanziere, cinepanettoni o cinecocomeri vari, si sono sì dati da fare per dare vita a delle commedie che mantenessero le distanze dalla consueta farsa rimpannucciata, meglio strutturate e con personaggi maggiormente delineati, pur all’interno dei consueti stereotipi, senza però compiere un passo concretamente convinto, e convincente, verso una compiuta definizione, stilistica e di contenuti. Sembrano aver dimenticato di possedere quelle doti che gli sono state sempre riconosciute, anche all’interno delle realizzazioni più becere e raffazzonate, ovvero una non comune capacità d’osservazione delle mutazioni in atto nella società, in particolare a livello di costume, pur rimproverandogli una spesso compiaciuta, e compiacente, messa alla berlina degli italici vizi, all’insegna di un cialtronesco “malcostume mezzo gaudio”.
Di Torno indietro e cambio vita ho ammirato la scorrevolezza, almeno fino a un certo punto della narrazione, che all’improvviso, poco dopo la visualizzazione della “golden age”, pare incepparsi e ruotare stancamente sul riciclo di gag e battute. Ugualmente posso scrivere riguardo una certa eleganza complessiva nella messa in scena, ma mentre scorrevano ormai i titoli di coda, dopo il meccanicistico trionfo dell’ineluttabilità del destino, maturava in me la convinzione che i Vanzina brothers abbiano perso quel minimo di allegra e coinvolgente spontaneità propria di molte loro pellicole (almeno di quelle più riuscite, sino al triste subentro delle varie derive triviali ed escatologiche). ICarlo ed Enrico Vanzina
In particolare sembra essersi ormai spenta quella luce, divenuta negli anni sempre più fioca, di un onesto richiamo alla genuinità primigenia di un cinema “sanamente” popolare, che ritengo ormai difficile sia possibile recuperare, nei confronti dei fan più affezionati, o provare a trasmettere nelle nuove generazioni; non si tratta di reinventare nulla, né tantomeno di tornare indietro nel tempo alla ricerca della complicità ruffiana volta a condividere sensazioni forse perdute.
Più semplicemente occorrerebbe fare leva sulle proprie, indubbie, capacità e provare a bilanciare tanto il buon ricordo di ciò che si è stati, ove se ne ravvedano le ragioni, sia il constatare quel che si è adesso, per provare ad esprimere qualcosa di veramente nuovo e cinematograficamente valido.