(Raging Bull)
Regia di Martin Scorsese
con Robert De Niro (Jake LaMotta), Joe Pesci (Joey LaMotta), Cathy Moriarty (Vickie LaMotta), Frank Vincent (Salvy), Nicholas Colasanto (Tommy Como), Theresa Saldana (Lenore LaMotta), Mario Gallo (Mario), Frank Adonis (Patsy), Joseph Sbono (Guido).
PAESE: USA 1980
GENERE: Drammatico
DURATA: 129′
Ascesa e caduta del pugile di umili origini Jake LaMotta, detto il “toro del Bronx”, violento e paranoico dentro e fuori dal ring, grande incassatore, che nel 1949 vinse il titolo mondiale dei pesi medi per poi cederlo, due anni dopo, al pugile di colore Sugar Ray Robinson, suo storico rivale. Ritiratosi nel 1954, prese una trentina di chili e divenne attorucolo di cabaret e gestore di bar e night.
Ispirato all’autobiografia dello stesso Jake LaMotta, adattata per lo schermo da Paul Schrader e Mardik Martin, uno dei più noti e apprezzati film di Scorsese, “il miglior film sul pugilato della storia del cinema” (Morandini), canto del cigno della New Hollywood. Nel raccontare un’ennesima storia di ascesa e caduta senza riscatto o catarsi (tema forte del suo cinema futuro, da Goodfellas a Wolf of Wall Street passando per Casinò), Scorsese riprende e amplifica il discorso sulla violenza animalesca insita nell’essere umano che faceva capolino in Mean Street e Taxi Driver. Lo fa con un film estremamente violento che, molto veristicamente, racconta il fallimento dell’uomo dinnanzi a un destino che sembrà già scritto, prodotto di una serie di condizioni (sociali, storiche, etniche, antropologiche) che gli impediscono qualsiasi riscatto. Ecco il perché della sua (apparentemente) immotivata rabbia: sono condizioni indipendenti dalla sua volontà, dunque immutabili. È il definitivo fallimento del sogno americano che di fatto NON premia chi lavora sodo per ottenere dei risultati. E infatti la biblica frase finale conferma che il giudizio di Scorsese si sposta dall’individuo al mondo che lo ha partorito. Ring e vita privata si intersecano perfettamente finendo per diventare uno la prosecuzione dell’altra: come se Scorsese volesse sottolineare che la boxe non è altro che ennesima espressione dell’istinto bestiale tipico dell’uomo, stavolta veicolato e travestito da sport. Non a caso il film è sbilanciato, poco “sportivo” (nel senso di genere cinematografico) e molto “drammatico”: pochi gli incontri, tutti molto veloci, fulminei, risolti in pochissime inquadrature e non più lunghi di due, tre minuti; molti i dialoghi, le lotte FUORI dal ring, che durano anche dieci o quindici minuti, in cui esce la vera bestialità proprio perché manca l’alibi del ring a giustificarla. Questo è quello che interessa a Scorsese, più ancora degli incontri (che comunque, a livello registico e di montaggio, hanno fatto scuola) o degli stereotipi tipici dei film sul pugilato: e infatti il montaggio vorticoso, allucinato e paranoico come la personalità di Jake, spesso si quieta e lascia il posto a lunghi, inaspettati piani sequenza in cui si rifiata. C’è molto neorealismo, soprattutto nei dialoghi e nelle interpretazioni, ma ci sono anche ellissi, sottrazioni, divagazioni, ovvero molta Novelle Vague: insomma, i due amori cinematografici di Scorsese insieme, perfettamente a braccetto. Interessante anche il discorso sull’italianità, sulla sua religiosità deviata, il suo esasperato maschilismo, altri elementi che saranno fondamentali nella successiva opera del regista. Sottofinale in una cella di prigione di struggente pietà. Sono diventati piccoli cult i monologhi di Jake, in camerino, prima di salire sul palco del cabaret (l’ultimo, in piano sequenza, davanti allo specchio, è da pelle d’oca), ma la scena forse più nota è quel piccolo capolavoro visivo che accompagna i titoli di testa, contrappuntato dall’intermezzo della Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni, con De Niro incappucciato sul ring che sembra danzare. Epica interpretazione, premiata con l’Oscar, dell’attore italoamericano, che mise su dieci chili di massa muscolare e altri venti di ciccia per interpretare LaMotta anziano. Statuetta meritatissima anche per il montaggio di Thelma Schoonmaker, anche se ne avrebbe meritata una terza la splendida fotografia di Michael Chapman, elegante, espressiva, policroma nonostante il bianco e nero. Bianco e nero interrotto solo dai finti Super 8 amatoriali che raccontano gli anni migliori dei LaMotta (e che Scorsese, andando controcorrente, relega a quattro minuti di film). Clamoroso insuccesso di pubblico ma unanime apprezzamento da parte della critica. Da vedere.