Nella puntata
scorsa si parlava da un lato della perversa equazione
desiderio = consumo = soldi = lavoro che implica la necessità da parte dei cittadini di adeguarsi a una società iperlavorativa che ha svilito il termine ozio connotandolo negativamente quando invece il suo significato vero
"(derivato dal latino otium) indica un'occupazione principalmente votata alla ricerca intellettuale, attività di fatto riservata alle classi dominanti, ed è contrapposto al concetto di negotium, occuparsi (più per necessità che per scelta) dei propri affari."
(da Wikipedia);
dall'altro della dipendenza dal profitto (ovvero dall'accumulo parossistico di ricchezza) che l'economia di mercato ultraliberista ha sviluppato e consolidato nella prospettiva di chi fa impresa a tutti i livelli, dal piccolo commerciante al grande industriale. Ebbene, sulle prime i due aspetti possono sembrare questioni diverse e separate, almeno nella misura in cui da un lato gli impiegati e gli operai, dall'altro gli imprenditori, si trovano in effetti su sponde opposte di un confine sociale marcato con l'inchiostro delle buste paga. Eppure per come la vedo io, la radice filosofica e psicologica individuale dei due approcci è esattamente la stessa. L'istinto che porta la popolazione a
picchiarsi per entrare per prima all'inaugurazione di un nuovo Centro Commerciale, ovvero a sentirsi felice nella soddisfazione di desideri inoculati dalla pubblicità soddisfatti acquistando cose, possibilmente battezzate dall'incentivo di un'offerta speciale, è semplicemente la gratificazione del possesso, ovvero in pratica, ancorché su scale diverse, lo stesso imperativo morale che porta la casta politica e quella imprenditoriale a voler arricchirsi senza misura e a non voler rinunciare ai propri privilegi.
Perché dunque si dovrebbe pretendere da loro quello che non vogliamo fare neanche noi? Lo so, lo sento fin da quassù lo scricchiolio dei vostri nasi che si storcono. Loro (prendiamo in questo caso i politici) sono dei ricchi privilegiati del cazzo, che vanno in pensione dopo pochi anni di lavoro (lavoro per modo di dire) e vivono da nababbi a spese dei contribuenti. Per non parlare di uno come Marchionne il cui stipendio annuale vale lo stipendio annuale di qualche migliaio di operai (dunque se Marchionne rinunciasse al 90% del suo stipendio resterebbe comunque molto ricco e nel contempo potrebbe evitare la cassa integrazione a un'intera fabbrica per un anno). Perché, direte voi (lo sapete che percepisco i vostri pensieri), non cominciano
loro a ridursi i loro privilegi, visto che siamo noi quelli che se lo prendono sempre sotto la coda? Vi capisco, il vostro ragionamento non fa una piega. Quello che però mi interessa evidenziare qui, è che la molla psicologica che anima loro e voi è la stessa, perché se voi foste al posto loro (o comunque la maggioranza di coloro che non sono al posto loro) vi comportereste né più né meno come loro. Un po' come ritrovarsi nel bel mezzo di una sorta di intifada della cupidigia.
Per questo nell'ambito della filosofia della decrescita, che poi non è solo una dottrina teorica, bensì anche un programma sociale e politico molto pratico, quello che viene richiesto ai singoli individui a tutti i livelli (sociale, politico, economico) è un salto generale di visione, che deve partire innanzitutto dalla comprensione e dalla consapevolezza che questo non è l'unico mondo possibile, che questo non è il migliore mondo possibile. Ed è proprio questo che intende
Serge Latouche quando parla di "
decolonizzazione dell'immaginario", ovvero la disintossicazione mentale da quel sistema consolidato (e autorafforzativo e autocelebrativo) di credenze in base alle quali gli individui della società occidentale vengono educati, crescono, vivono e muoiono all'interno di un modello di esistenza non inevitabile, né invero più auspicabile di altri. È dunque una rivoluzione culturale generale quella che prima di ogni altra cosa deve diffondersi come una mutazione positiva, affinché la decrescita possa davvero avere qualche possibilità, una rivoluzione che può partire solo dal diffondersi di una coscienza sociale critica verso se stessa e conduca così le persone innanzitutto al riconoscimento che si può (anche) vivere diversamente da così, senza che questo debba significare per forza peggio di così.
/continua