1952
Di Steno
Con Totò, Isa Barzizza, Mario Castellani, Vittorio Caprioli, Galeazzo Benti, Franca Valeri, Luigi Pavese, Virgilio Riento, Rocco D’assunta
Sceneggiatura Steno e Age & Scarpelli, Fotografia Tonino Delli Colli, Montaggio Mario Bonotti, Scenografia Mario Filippone, Costumi Giulio Coltellacci
Pensando a Totò a colori la prima cosa che viene in mente è il Ferraniacolor ed il primo esperimento di film italiano a colori, le difficoltà di ripresa con una pellicola di soli 6 asa e le imprese sul set per resistere al terribile calore delle numerosissime lampade necessarie all’illuminazione, l’ardire del progetto produttivo di De Laurentiis e Ponti e la sua riuscita economica. Nelle storie di cinema vi si accenna a proposito di questo, anche il titolo non aiuta a ricordarlo per altro. Infine è un “film di Totò” e come tale viene con facilità relegato in un unico calderone assieme a tutti gli altri, da cui è difficile estrarre o distinguere scene, segni di coerenza o indicazioni per un’analisi più approfondita.
Bazin a proposito dei primi film di Chaplin (credo intendesse tutti i cortometraggi con Keystone, Essanay e Mutal) scrisse che è difficile assegnare una gag che ricordiamo ad uno specifico film. Queste avevano una loro autonomia, un potere singolare così forte da poter stare ovunque, come se la trama fosse un accessorio, un’aggiunta necessaria ma irrilevante.
In Totò a colori accade una cosa simile. Il proposito era quello di proporre un collage di sketch, nuovi o già presentati da Totò in teatro e dar loro un filo logico, una trama accessoria appunto. A ripensare il film infatti non si saprebbe ben dire se venga prima la scena di Capri o quella del vagone-letto, il giardiniere o Joe Pellecchia. Ma ciò non toglie nulla al risultato, non è la sequenza che conta, e neppure il preciso contenuto delle scene. Sono ben note le enormi capacità improvvisative di Totò e la sua libertà sul set, testimonianze di Steno e Delli Colli (il direttore della fotografia) riportano quanto alcune scene o alcune battute siano state modificate proprio durante le riprese. La bellezza, la forza di Totò a colori sta nel ritmo incessante e in una sottile e costante accezione satirica.
Nel 1952 la guerra era finita da soli sette anni, da sei l’Italia era una repubblica. Il paese era una fucina di contrasti, modi di vivere, mitologie, fermenti, speranze. Antonio Scannagatti poteva essere un uomo dei tanti, che ha passato la vita in un “paesucolo” come Caianiello e che solo per aver fatto tre anni di militare a Cuneo poteva sentirsi uomo di mondo tanto da vantarsene. Le sue velleitarie ambizioni musicali sono messe in discussione per quasi l’intero film, costituendo di fatto la base comica su cui costruire gli sketch. In una delle prime scene il “Maestro” compone di primo mattino tra le ire del palazzo, si lascia ispirare dagli uccelli per melodie suonate su un pianoforte scordatissimo o su un contrabasso decorato con seni femminili che funzionano da clacson a tromba. In un’altra il litigio con il locale maestro di banda porta i musicisti a suonare un finale imbizzarrito in cui il suonatore di bassotuba resta così senza fiato che il suo viso si colora di rosso, un riuscitissimo effetto ottenuto in laboratorio quasi a divertirsi con la novità del colore. Ma le sue velleità musicali sono davvero tali?
Alla fine del film la sua opera è stata scoperta e riconosciuta come un capolavoro dall’editore Tiscordi (ovvia ironia sul nome Ricordi come l’altro Sonzogno, cambiata in Sozzogno) e si parla nel discorso di benvenuto che fa il sindaco di musica dodecafonica. Cosa c’è sotto questo “riconoscimento”?
Si parlava prima di accezione satirica: per tutto il film si sottolinea quasi ad ogni scena un contrasto, un’opposizione, tra mondo nuovo, alla ricerca di senso e legittimazione, e umile mondo antico, popolare e chiuso in sé. Il giardiniere col suo dialetto che a cambiare neppure ci prova, le autorità per nulla autorevoli nelle stesse stanze del sindaco che implorano Scannagatti di dirigere la banda e non si fanno scrupoli di fronte a inganni e raggiri, le buone maniere messe alla berlina quando l’onorevole vorrebbe procedere alla consueta cerimonia delle presentazioni e gli vien risposto con l’offerta di un mignolo, Rossini suonato in una stalla tra i versi degli animali e musicisti che non sanno leggere la musica, il Picasso che desta spavento agli occhi di un uomo di paese come è Antonio. Il divario tra cultura e popolo, tra nuove autorità e individui distanti dal potere, di questo, in secondo piano, dietro le contagiosissime risate, dietro la comicità più superficiale (vagon-lits contro vagon qui), parla il film. E Antonio è il polo di tale ambivalenza: cittadino che esige i suoi diritti da una parte e opportunista libertario dall’altro.
Vorrei isolare due episodi. Il primo, Antonio Scannagatti sta dirigendo la banda di Caianiello per l’arrivo del suo emigrato più illustre, Joe Pellecchia, arricchitosi da gangster in America ma accolto coi massimi onori grazie alle promesse di forti aiuti economici. Joe vorrebbe fare un discorso dal balcone del municipio, ma ogni qual volta tenta di cominciare la banda riprende a suonare, mandandolo in bestia tanto da farlo scappare a pistole spiegate come in un western. Dietro questo semplice scherzo musicale c’è un personaggio che sta costruendo il suo mito ed ha per la prima volta l’occasione di un riconoscimento pubblico, Antonio Scannagatti, contro un personaggio il cui mito è già costruito e inciso nelle coscienze dei cittadini e anche degli spettatori, l’italo-americano Joe, gangster goffo e con alcuni sospettabili tratti ripresi da Stanlio e Onlio (da Oliver Hardy in particolare). È quindi il confronto tra una mitologia tutta italiana dell’approfittatore e una tutta cinematografica da importazione ma anche proveniente dalla storia recente: un americano che passa tra due ali di folla italiane le quali si aspettano qualcosa da lui. Antonio con la sua musica ne sta impedendo la parola, quindi l’idea, quindi l’influenza, smascherandolo e mostrandolo per quello che è, un individuo violento e burbero che non ha nessun reale affetto per il suo paese.
Il secondo episodio. Scannagatti è a Capri in cerca di una signorina che afferma, mentendo, di essere in buoni rapporti con l’editore Tiscordi. La trova in una casa alla moda, abitata da esistenzialisti, alternativi, individui bizzarri e, si sospetta, molto superficiali. Introdotto nella casa dal viziatissimo figlio del sindaco (che la prima volta che appare sta giocando a terra come un bambino nonostante i baffi e l’aspetto non più giovanissimo) Antonio deve necessariamente camuffarsi. Si cambia d’abito ma soprattutto deve seguire tre precise istruzioni: camminata internazionale, stanchezza congenita e al posto della “erre” la “evve”. Antonio vi riesce benissimo diventando subito il centro dell’attenzione e inventando quel surreale momento in cui gli inquilini cantano Cab Calloway marciando e dandosi a lamentazioni con tanto di campana, tanto da sembrare una processione funebre. Ma anche in questo caso Antonio non cede al senso comune, invece delle chiccosissime ragazze, cede all’attrazione per la formosa servetta. Ribalta le posizioni, i ruoli, di tutto ciò che c’è svela l’inganno, il falso, il comico. Sembra dirci che senza camuffamento non sarebbe possibile il dialogo, ma chi resta per troppo camuffato invalida il dialogo stesso.
La comicità di Totò a colori è tutta giocata su scambi, di persona, di luogo ma innanzitutto su scambi linguistici, invenzioni, idiomi improvvisati, latinismi più maccheronici che mai. Quella che viene a crearsi è una vera e propria confusione, un mischiarsi di livelli, di mondi, una piccola babele brillante che ha il suo momento culminante nella celeberrima scena del vagone-letto in compagnia di Mario Castellani, certo uno dei vertici della comicità nostrana, con quello starnuto continuamente rimandato capace di scandire le fasi della scena proprio come se si fosse su un palco di teatro.
La metamorfosi in marionetta è invece una delle scene più rivelative dell’attore Totò, tutta la sua capacità mimica è messa in mostra. Il cognato che lo sta inseguendo, coltello alla mano, è ingannato dalla sua verosimiglianza e noi vorremmo esserlo quanto lui, quanto quei bambini che guardano lo spettacolo, cedere all’incanto. Ma noi sappiamo dell’uomo e sappiamo del coltello e Steno ce lo ricorda. Dopo l’abbandono sulla parete della marionetta-Pinocchio-Antonio Scannagatti-Totò, come fossero stati allentati, esausti, i fili dall’alto, vi sono due brevissime inquadrature della mano armata in primissimo piano e della paura sul viso di Antonio: due inquadrature atipiche, frontali, quasi da noir, fuori posto anche loro in questo poliedrico universo-collage.
Il “Cigno di Caianiello”, così si fa chiamare Antonio, nel finale viene accolto in un paese festante. È un paese reale, i ragazzi sono veri ragazzi accorsi lì per ammirare lo spettacolo cinema ed uno dei suoi beniamini, Totò. Lo si vede da un ragazzo che in una inquadratura sale una finestra per vedere più lontano di quanto potesse, per vedere Totò mentre l’occhio cinematografico ne riprende le bizzarrie.
Tanta gente dovrebbe star lì a festeggiare il successo, improbabile, di un maestro di musica dodecafonica. Quando gli vien chiesto di suonare un suo pezzo è però tradizionale musica da banda quella che si sente e nel momento in cui Scannagatti se la dà a gambe l’orchestra intona un altro motivo tipico. Quel motivo era, a quei tempi, uno dei più suonati agli spettacoli di marionette, soprattutto quando cristiani e infedeli arrivavano alle armi. Chi è il cristiano qui? E l’infedele? Totò a colori sembra l’inno a quell’Italia, un po’ cristiana, un po’ infedele, che tutti ci portiamo dentro.
Tre curiosità. Il giardiniere, interpretato da Guglielmo Inglese, quando Totò sta entrando in scena sta cantando tra sé Malafemmena, scritta l’anno precedente, cambiandone alcune parole, facendone quasi una caricatura. La Totò-marionetta sarà riutilizzata da Pasolini in Che cosa sono le nuvole? (1967). Il direttore di banda che mima i fuochi d’artificio era già apparso in Fermo con le mani (1937) e I pompieri di Viggiù (1949)