Toto le héros, tra l’altro un esordio, tra l’altro notevolissimo, annovera infatti una consistente quantità di similitudini con la pellicola del 2009. Questo aspetto è già un sintomo della precipua autorialità del belga: non una ripetizione di stile e contenuti, ma nell’ottica artistica, decisamente più interessante ai fini del giudizio, un discorso che acquista fluidità e crescita attraverso filigrane auree che collegano due film distanti 20 anni e che a loro volta si evolvono in un dedalo straripante di cose, tutte straordinariamente belle.
E bello lo è davvero rivedere in questo film le medesime rotte del Signor Nessuno: anche qui abbiamo un impianto fondato sul ricordo, e anche qui la memoria che se ne va all’indietro è quella di un uomo giunto alla fine del suo percorso, un vecchio, il cui sforzo di analessi si addentra fino al principio, all’origine di tutto: la nascita, e dall’inizio, grazie al cinema, inizia a ri-vivere.
Ma come era lecito attendersi lo sciame narrativo non è per nulla compatto né direzionato, anzi ama infrattarsi negli intercapedini del passato sbalzando da un’epoca all’altra, mostrando il presente, il passato prossimo e quello remoto a cui corrispondono le relative stagioni esistenziali di Thomas.
Eppure, nonostante le tematiche siano vicine all’esondazione e aumentino inevitabilmente i processi cognitivi dello spettatore, c’è una Stella Polare che orienta il cammino sia del protagonista che del film tout court, e questa coordinata basilare non è altro che l’amore.
Di nuovo, il legame sentimentale che in apparenza si recide più e più volte, ma che nella pratica si fortifica col passare del tempo, unisce due fratelli che fratelli non sono. Gli odori incestuosi, ammesso che qualcuno possa avvertirli, sono totalmente assorbiti dalla consapevolezza di Van Dormael che scandagliando i viottoli dell’innocenza cava fuori una tenerezza capace di ripercuotersi anche quando Thomas diverrà adulto, invecchiato ma sempre innamorato.
All’eros e agli svariati accadimenti all’interno del film, si aggancia quello che con ogni probabilità è l’argomento principe di tutta l’opera: l’identità. Thomas come Nemo è uno e tanti, l’azione simmetrica interseca e sovrappone le vite di due bambini/uomini che nonostante le sottolineate divergenze aderiscono l’una sull’altra con sorprendente puntualità. Ma la lettura non è così immediata perché Van Dormael permette al suo personaggio di immaginarsi un’esistenza ulteriore che se ne sta un po’ di là (nello scenario hard-boiled) e un po’ di qua (lo sfondamento della barriera tra sogno e realtà verso la conclusione). Il mix temporale unito alla riplasmante personalità di Thomas donano al film la possibilità di un percorrimento continuo, visivo e concettuale, che non conosce esaurimento.
E, giusto per far evadere qualche suggestione personale, ho ri-visto in Toto alcuni lampi di Nobody: la voce infantile che narra, un cadavere sul tavolo autoptico, un’apnea nella vasca da bagno, treni che sfrecciano, ceneri sparse, una risatina beffarda, e chissà quant’altre epifanie non registrate data la natura dirompente del film.
Ma strutturare una recensione elencando soltanto somiglianze vere o presunte fra due lungometraggi non rende i meriti di una pellicola che, come nel nostro caso, è cresciuta alla grande (forse ringiovanendo?) senza mostrare il benché minimo cedimento, e tale freschezza intonsa si deve ad una vitalità globale (vale davvero per tutto: dalla sceneggiatura alla regia passando per gli attori) che in qualche modo conforta per l’incredibile potenza che il Cinema possiede quando esce allo scoperto, e non sono soltanto accenti deliziosi come la scena del camion o il finale attiguo alla commozione a placare la brama cinefila, c’è dell’altro, qualcosa che si infiltra sottopelle e una volta giunti ai titoli di coda ti lascia lì, imbambolato davanti allo schermo, con gli occhi sgranati e il cuore che, serenamente, riprende a battere.