LA STORIA DI UN GRANDE CAMPIONE DEL NOSTRO CALCIO. L' UOMO CHE CON QUEGLI OCCHI AFFAMATI DALLA VOGLIA DI VINCERE, HA ILLUMINATO LE NOTTI D' ESTATE, DEL 1990, DI MILIONI D' ITALIANI. L' ITALIA NON VINSE QUEL MONDIALE, MA TOTO' RIMARRA' PER SEMPRE NELLA STORIA DEL CALCIO ITALIANO.
DI FRANCO ROSSI L’eroe delle notti magiche ha gli occhi invasati di chi viene da una vita povera e dal ghetto del Cep, il quartiere palermitano dove il calcio, con il suo cocktail di forza, tecnica e agonismo, rappresenta l’unico passaporto per uscirne.
Non è facile spiegare perchè Salvatore Schillaci diventa il simbolo di tutta l’Italia durante i Mondiali del 1990. Gli occhi grandi, stupiti e sorpresi, attraversati da lampi di aggressività animale, non bastano a spiegarlo, nè tanto meno i gol.
Otto anni prima quelli di Paolo Rossi erano stati decisivi per far vincere agli azzurri il titolo mondiale, quelli di Schillaci nel 1990 sono soltanto sufficienti per arrivare terzi.
E allora perchè sotto il cognome di un siciliano, che parla sgrammaticato e usa i congiuntivi in maniera personalissima, tutti gli italiani, d’incanto, si sentono riuniti?
Quando arrivò alla Juve, acquistato dal Messina, tutti pensarono che mai e poi mai avrebbe giocato in bianconero, C’era la convinzione che fosse girato al Torino per avere il brasiliano Muller. E invece con la Juve è diventato campione, con la nazionale un idolo.
Difficile capire per chi è nato mille chilometri lontano dal Centro elementare pericolosi, traduzione poliziesca del quartiere palermitano Cep da dove proviene.
Un tempo, lì sotto il Monte Pellegrino, nelle loro straordinarie ville, passavano le ferie gli aristocratici, e in una di queste Luchino Visconti giro molte scene de “Il Gattopardo”.
Successivamente gli aristocratici se ne andarono e al posto delle eleganti dimore fu costruito, nel delirio urbanistico-mafioso della città, un orrendo quartiere periferico, dove violenza, emarginazione, ignoranza trovano terreno fertile per crescere.
Uscire onesti dal Cep non è facile e ancor più difficile è uscirne con un lavoro.Eppure a tredici anni Totò Schillaci un lavoro l’aveva: da Nino Barone a cambiar gomme.
In casa le cose andavano male e le centomila al mese del ragazzino – che sarebbero diventate 281mila nel 1981 – servivano eccome. Anzi erano indispensabili.
Mimmo,il padre, un po’ faceva in carpentiere, un po’ faceva il disoccupato. Rosalia, Giuseppe e Giovanni eran troppo piccoli per cercare quattrini e la madre, Giovanna, faticava assai nel mettere assieme il pranzo con la cena.
Totò non teneva animo per lo studio, avrebbe stentato a superare le elementari alla Crispi e le medie alla Cucchiara, ma nel calcio, si che se la cavava.
Diventare calciatori è da quelle parti, un mezzo per uscire dal ghetto, come il basket, il baseball e l’atletica in quelli americani. Così ecco lo Schillaci bambino giocare tra gli “Aquilotti Amat” e Angelo Chianello, carroziere al Cep con patentino da allenatore di terza categoria, dire ancor oggi con voce piena d’orgoglio: “Totò Schillaci l’ho scoperto io….”
Era un ragazzo gracile che correva, però, senza soste, non possedeva alcuna base tecnica, ma cosa importava?
L’Angelo Chianello lo volle subito con sè. “Tutto ciò che Totò sa di calcio l’ha imparato da me”.Ad essere onesti c’è da dire che forse di calcio Totò non ha imparato granchè. Nè avrebbe potuto.
Nel calcio, come nella vita, Totò ha sempre seguito l’istinto, piuttosto che le regole. D’istinto aveva capito, da adolescente, che soltanto con il calcio sarebbe evaso dal Cep, e d’istinto andava avanti, facendosi strada tra i giovani calciatoripalermitani, finchè Salvatore Massimino, presidente del Messina, fiutò nel ragazzo il campione.Se lo portò in squadra per venticinque milioni. A Totò duecentocinquantamila al mese, più naturalmente il costo della pensione: da Celeste. Era il 1982 e l’Italia tutta invadeva le piazze per inneggiare agli azzurri campioni del mondo in Spagna.Schillaci è preso in cura da Francesco Curro e dal dottor Filippo Ricciardi, medico sociale.
Inizia la sua carriera di professionista con determinazione e feroce volontà di riuscire. Viene acquistato dalla Juventus e finisce in nazionale.E proprio con la maglia azzurra incendia le notti magiche di Italia ’90.Negli occhi di Totò, nei gesti furenti, nell’espressioni che farebbero la felicità di qualsiasi psichiatra, c’è tutta la classe di un grande campione, anche se al livello dei Mondiali, ha vissuto (e ballato) una sola estate.Per un istintivo come Schillaci, che significato ha la parola classe?Il significato di chi usa ogni fibra muscolare, anche la più profonda per raggiungere, prima del difensore avversario la palla da scaraventare in rete e di chi rivolge ogni pensiero e animo allo scopo di raggiungere lo scopo che si è prefissi.
E’ la trance agonistica. Quella che permette a Totò di segnare sei gol al Mondiale.Dopo i fasti di Italia ’90 comincia per Totò la lenta via del tramonto. Non si ripeterà più, lo scrittore o il regista che nella loro Opera prima dicono tutto: il “dopo” non sarà più lo stesso.
Anzi, non avrà più senso.
Finisce la sua carriera in Giappone, notti non più magiche ma d’Oriente.Firma il contratto nell’aprile del 1994 e quello stesso dicembre vado a trovarlo, una visita di cortesia, sono a Tokio per la Toyota Cup tra Milan e Velez Sarsfield e rivederlo più che un dovere, è un piacere.I ragazzini giapponesi vanno matti per Schillaci, uno così lontano dal loro mondo.
Un siciliano nella terra dell’ikebana, dell’origami e del “Teatro No”: cosa potrebbe esserci di più contrastante?
“Nulla sapevo, tutto mi incuriosiva. Mi trovo bene? Certo, qui ho trovato l’America. Per guadagnare quello che guadagno in un anno in Giappone, in Italia dovrei giocare almeno tre campionati. Niente è più lontano da me, dalla mia Sicilia, di questo Paese dove quando una persona ti sorride non sai se è triste o allegro, e se ha la testa bassa non sai se è allegro o triste. Non ho imparato una parola di giapponese, ma se dico qualcosa in siciliano, magari mettendoci dentro qualche espressione siciliana, tipo minchia, ho l’impressione che mi capiscano. Non ho nostalgia dell’Italia, sono felice di essere qui, nessuno mi obbligò…All’Italia ho dato tutto, vero, vorrà dire che la mia rabbia, la mia grinta, questo mio istinto che mai mi fa tirare indietro il piede, continuerò a darlo a questa squadra giapponese che ha creduto in me. Noialtri siciliani da sempre siamo abituati ad emigrare e io mi considero un emigrante fortunato. Oh, guarda che nelle partitedell’Jwata ci sono 38 mila spettatori fissi, mica pochi. E qui mi considerano un idolo, la mia maglietta viene venduta a 150 dollari nei negozi di Tokio e le ordinazioni finiscono subito. Entro breve tempo voglio imparare almeno una cosa: a firmare gli autografi con gli ideogrammi. Sarei il primo calciatore italiano a farlo¯.
Una stretta di mano e se va. Firmando decine d’autografi con la grafia di casa nostra.Ma ancora per poco.