Lo ammetto, anche io quando mi sono avvicinato a TQ ho pensato che
avrei trovato scrittrici e scrittori annoiati, magari figli di papà,
intellettuali che, un bel giorno, avevano aperto gli occhi e si erano
resi conto della solitudine dello/a scrittore/scrittrice. Invece, una
volta entrato, dopo aver letto le tante e mail, i pensieri, le
proposte, mi sono reso conto che anche qui, anche nel mondo della
cultura, anche fra gli/le operatori/operatrici del settore, la parola
d’ordine è precarietà.
Si tratta di una precarietà consapevole, dolorosa, che si vorrebbe
combattere e alla quale, purtroppo, per mere ragioni economiche, si è
costretti a soccombere.
E anche la scrittura, oggi, come ogni altra forma d’arte, risente di
questa precarietà. Oggi abbiamo giornaliste e giornalisti che lavorano
a “progetto”, spesso per giornali che hanno grossi legami con uomini e
donne di politica, con partiti, con gruppi religiosi. Se non scrivi
quello che loro vorrebbero leggere allora puoi anche scordarti di
percepire il tuo compenso. A volte, poi, pur di scrivere scegli anche
di collaborare gratuitamente. Non si tratta di una gratuità regalata,
non è, non sempre almeno, un “dono” . Si tratta di una gratuità
obbligata. O lo fai gratis o non lo fai. Una cosa è dire: “Voglio
regalare il mio lavoro a una testata giornalistica in difficoltà”
oppure “Voglio collaborare alla crescita di un sito in cui credo”
un’altra invece è avere la consapevolezza che se non rinunci al tuo
compenso il tuo articolo, su un determinato quotidiano, giornale, sito
internet, non apparirà mai.
Io che sono figlio di operaio e che sono cresciuto con il mito del
riscatto sociale prima con l’università e poi con la scrittura, un
mito sciocco e ben lontano dalla realtà, la cultura non l’ho mai
intesa come fonte di guadagno. Non potevo perché quando cominci a
lavorare a quattordici anni e sai che non hai alternative perché i
soldi per la famiglia non bastano, non hai il tempo di perderti in
fantasie di successo e fama. Per me la scrittura è sempre stata un
modo per non impazzire, un modo per raccontare una realtà sconosciuta,
quella del proletariato, quella dell’affettività e della sessualità
omosessuale, quella, soprattutto oggi, del precariato. Un precariato
che qualcuno, pensando di addolcire la pillola, continua a chiamare
flessibilità. Ma l’unica flessibilità imposta dal nuovo mondo del
lavoro è quella che devi avere per arrivare alla fine del mese. Non
siamo lavoratori e lavoratrici liberi/e, siamo coloro che mandano
avanti un’economia sbagliata, in cui tutto è grande e flessibile, il
posto fisso è ormai una chimera, un canto di sirena che illude i
navigatori della vita. E la precarietà del mondo del lavoro si
rispecchia, in modo impietoso, sulla precarietà della nostra
quotidianità. Non puoi permetterti di sognare, se non hai denaro non
puoi comprare libri, musica, arte, e quindi la precarietà diviene
anche culturale.
E questa precarietà si vede anche in giro per le librerie.
Se fino a qualche anno fa c’era il mito della buona scrittura oggi ci
sono, in molti casi, prodotti ben confezionati e precotti, storie
tutte uguali, infinite saghe che riciclano idee sempre uguali. E così
un film che funziona si ripropone dopo pochi anni con nuovi attori e
una nuova regia. E poi ancora. E ancora. E ancora.
Le librerie si riempiono di :“caso letterario dell’anno”, “scrittore
eccezionale”, “il nuovo Umberto Eco” perché tutto deve essere
“importante”, visibile, grande per vendere. E poco importa se il
prodotto creato dal grande imprenditore vale meno di niente, è la
pubblicità che conta e la massa lo acquisterà.
Sono le vendite, ormai, che determinano la qualità di un prodotto.
Precarietà, quindi, dentro e fuori, una precarietà interiorizzata che
ci costringe a non essere completamente liberi/e.
Oggi, e lo capisco leggendo le e mail di chi non ha ancora 30 anni,
precarietà è normalità. Chi scrive oggi lo fa, in moltissimi casi, in
modo completamente gratuito, i più fortunati e le più fortunate,
quelli/e che scrivono per case editrici senza avere grosse vendite,
percepiscono un 6%, quando va bene un 8%. Non va meglio ai piccoli
editori che, spesso, dalla distribuzione hanno un 40% di incassi sulle
vendite. Ci hanno mostrato un mondo pieno di potenzialità e poi ci
hanno detto che quelle potenzialità, in realtà, erano solo per pochi/
e.
Ritrovare, ora, persone che prendono coscienza delle proprie
condizioni, persone che vogliono fare cultura nonostante questo paese
la cultura non la voglia più, persone precarie che vogliono costruire
una rete di idee e proposte è un primo passo per abbattere l’incultura
dell’abbandono.
Abbandono di speranza, di lotta, di speranza.
È sulla precarietà che, a mio parere, TQ deve guardare per diventare
un movimento onesto e adulto. È sulla precarietà, nei vari modi e
nelle diverse forme, che dobbiamo porre pensieri e riflessioni, contro
cui dobbiamo batterci, anche e soprattutto a livello culturale, per
ridare un senso alle nostre storie.
Marino Buzzi