Non sono abituata a non essere capita e a non riuscire a farmi capire.
Da quando il mio inglese è fluente, sono sempre stata convinta che mi avrebbe aperto le porte in qualsiasi situazione, ergo, ho sempre pensato che non avrei avuto problemi a scambiare informazioni in qualsiasi parte del globo mi fossi trovata. Finora è stato così più o meno: non ho mai incontrato nessuno che mi guardasse con gli occhi sgranati e scuotesse la testa, nemmeno nell’angolo più remoto del mondo. Mi è capitato, invece, di avere davanti una persona che d’inglese non conosceva nemmeno una parola, ma, tra sorrisi di intesa e gesti manuali, ci si è capiti ugualmente.
Nei rapporti di lavoro, l’inglese è universalmente accettato e puoi trattare al telefono con tizi da qualsiasi parte del mondo senza porti il problema su quale idioma impostare il discorso. Quando sei un viaggiatore, un turista, invece, ti muovi in un contesto che solitamente facilità la comunicazione tra gli individui: nella maggior parte dei casi si è benvoluti, anche solo per una questione meramente economica, e c’è una certa predisposizione da parte della gente del posto ad ascoltarti, a volerti capire.
Finora sono sempre stata quella che in vacanza viene mandata avanti dagli amici perché parlo inglese e ho sempre considerato questa lingua il mio passepartout per il mondo e, invece, mi rendo conto che non è proprio così.
Quando ti ritrovi a gestire le situazione di tutti i giorni, da semplice utente/cliente, in una città francofona la cui popolazione è composta per oltre il 40% da expat, dai quasi per scontato che continuerai a non avere problemi. Ed è li che ti sbagli.
Fin quando si tratta di aprire un conto corrente, la banca ti mette a disposizione il personal banker che ti parla in italiano; se devi attivare la linea telefonica, digitando il tasto 4, vieni messo in linea con un operatore che ti parla in italiano; se vai all’Ufficio Cantonale per l’Immigrazione, l’addetto allo sportello parla 4 lingue, tra cui l’italiano; se, invece, ti citofona il tecnico inviato dalla Regie per fare delle riparazioni in casa, passerai secondi di panico perché non capirai chi è e nella tua testa la domanda “APRO O NO? APRO O NO?” si accenderà come un neon impazzito, che smetterà di lampeggiare solo quando ti si scioglierà la lingua e riuscirai ad azzardare un “I’m sorry, I dont’ speak French. Who is it?” a cui seguirà inesorabilmente un’altra sbrodolata in francese che, fortunatamente, contiene la parolina magica CHARPENTIER!
Aaah.. illuminazione!
I lavori si svolgeranno in un simpatico siparietto in cui tu tenti di spiegare cosa c’è da sistemare al tizio che sembra essere il capo, il quale ti risponde con un cenno della testa facendoti capire che sarebbe meglio relazionarti col suo assistente, il quale, a sua volta, da quel momento in poi, non farà altro che reagire ad ogni tua frase con un sorriso non proferendo parola.
Ma all’improvviso dalla tua bocca esce un timido “LAVE VASSEL” in tutto il tuo francese maccheronico condito con un lieve accento napoletano ereditato dal marito campano, che ha il pregio di regalare un’espressione rilassata al timido assistente, il quale si lascia andare addirittura ad un “AAAH.. No.” mentre tu ti stai chiedendo ancora chi abbia parlato.
Dopo qualche istante suonano di nuovo alla porta: sono i fattorini dell’Ikea che arrivano in soccorso alla mia autostima. Entrano, posano gli scatoloni seguendo la direzione del mio indice, mi mostrano un foglio, firmo e gli basta un bon jour e un merci per farli andare via sorridenti.
Domani alle 8 ho l’appuntamento con l’elettricista e il fatto che sappia l’orario mi farà quantomeno evitare di lasciare qualcuno giù in strada. Lo spiegargli il problema con la rete telefonica e la lavastoviglie è un’altra storia.