A partire dal dodicesimo secolo gli islandesi scoprono il romanzo, l'arte di Cervantes e di Flaubert, senza che il resto del mondo se ne accorga
Solo apparentemente non c'entava nulla, è ovvio: perché a qualsiasi lingua appartengono i libri alla fin fine si ritrovano tutti nella stessa biblioteca, una biblioteca universale che non può non essere di tutti. Però è vero, questa cosa dell'Islanda si conosce poco.
Nemmeno io ho mai letto le saghe, e sì che anche in Italia ormai sono disponibili in diverse buone traduzioni. Sarà che le ho sempre classificate come una lettura da addetti ai lavori o da adepti di un folclore nordico che alla fine stanca. Con tutta la simpatia per i vichinghi e per le loro straordinarie navi con cui sfidavano i mari più gelidi.
Però che fascino, queste saghe, parola che di per se stessa fa vibrare sensazioni di lontananza, ma pure di intimità, come a evocare sere di neve e vento e racconti condivisi intorno a un fuoco.
Saga, in lingua norrena (l'antica lingua dei popoli della Scandinavia), significa proprio racconti. Da qualche parte ho letto che l'origine della parola richiamerebbe la figura di una dea misteriosa, della stessa stirpe di Odino e Thor, definita come "colei che vede".
Credo che mai o quasi mai si conoscano gli autori delle saghe. Molte notti, molte veglie, molte versioni passarono prima che qualcuno trovasse il modo di metterle per scritto. Ho letto anche che nell'islandese di oggi la parola "autore" richiama un'altra parola che significa "chi inizia una storia".
In fondo come per quell'altra "saga", che parlava di una guerra sotto le mura di Troia, solo che invece dei ghiacci e i vulcani di Islanda c'erano i lidi del Mediterraneo. I versi di Omero come le saghe dell'Islanda.
Vedere, raccontare, iniziare.
Appena posso me le vado a comprare le saghe, me le porto a casa per regalarmi un sogno del Nord.