La maschera della Commedia dell’Arte tipicamente veneziana, impersonata da un singolare e anziano mercante e dalla sua schietta parlata dialettale.
Spesso viene raffigurato con una borsa di soldi, denominati in lingua veneta bezzi o palanche che mette in luce una parte della sua personalità: la ricchezza a volta spinta fino all’avarizia.
Tra le maschere della Commedia dell’Arte, veneziano è Pantalon de’ Bisognosi.
Uomo più che fatto, decisamente anziano, naso adunco, costume rosso, mantello nero, incarna il carattere di quei mercanti che piantarono il Leone di Venezia in ogni angolo del Mediterraneo orientale (di qui una delle etimologie: «pianta-leone»). In Pantalone la parsimonia può tramutarsi repentinamente in avarizia, la tenerezza senile in libidine, ma anche la severità in comprensione, soprattutto.
Tuttavia fuori del sistema di valori del teatro dell’Arte, in cui ciascuna maschera ha una decisa connotazione regionale e sociale (per cui Pantalone è il padrone veneziano che parla in veneziano e lo Zanni o Arlecchino sono i servitori che, provenienti dall’entroterra, si esprimono nel loro rustico dialetto), è difficile riscontrare un qualche elemento di storicità in questa maschera tranne che nell’abito cittadino cinquecentesco.
Tuttora assai apprezzata dal pubblico di tutto il mondo, la Commedia dell’Arte sembra giunta già da lungo tempo al capolinea proprio in Italia e in particolare a Venezia, dove è coltivata da alcune compagnie amatoriali o semiprofessionali, laddove al contrario occorrerebbe forse un intervento pubblico per difendere quello che della tradizione ancora resiste (almeno negli archivi e nelle biblioteche). Fatto sta che, salvo rare eccezioni o presenze di grandi attori (come Dario Fo nel festival della Biennale-Teatro del 1985) gli attori che vogliono studiare le maschere dell’Arte devono riparare alle scuole di mimo transalpine, così come già fecero a lor tempo gli Arlecchini di Giorgio Strehler, Mario Moretti prima e Ferruccio Soleri dopo.
Ma per Pantalone è diverso: la mimica è ridotta ad un andamento incerto che cerca spesso sicurezza nel bastone e si guarda intorno in modo sospettoso, e quel che più conta è la parola, a volte assai tagliente soprattutto nei confronti dei giovani e delle donne. Quella che occorre quindi, per un Pantalone che sia degno erede di Cesco Baseggio e di Nico Pepe, è una formazione fortemente locale. Nato a Udine nel 1907, e scomparso all’età di ottant’anni, Pepe si considerò un vero missionario del teatro dell’Arte al quale dedicò fino alla fine grandi stage spettacolari, trascinando di città in città, come gli antichi capocomici un baule ricolmo di maschere.
Scoperto anche lui nel ’47 da Strehler per la memorabile edizione di Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni, Pepe coltivò senza soste la maschera di Pantalone portandone a perfezione l’interpretazione, ma senza creare un allievo degno del suo nome di maestro. Del resto il rapporto degli attori delle ultime generazioni con la maschera sembra essere difficile o quanto meno problematico, se è vero che alla proposta dello stesso Giorgio Strehler di subentrare al Soleri in una nuova rappresentazione dell’Arlecchino, Paolo Rossi accettò a condizione di poter fare la parte a volto scoperto. La risposta non convinse il grande regista e della cosa non se ne fece nulla.