di Giuseppe Leuzzi. La correzione di bilancio fine a se stessa, non mirata alla produzione e al reddito, è il moto perpetuo (circolo vizioso) della crisi. Quindici anni fa di questi giorni, quando l’Italia s’imbatté per la prima volta nella recessione, la natura della crisi era manifesta, se ne poteva scrivere con chiarezza:
“Al momento della firma con i sindacati dell’accordo del 1975 sul punto unico di contingenza, che sembrò sancire il salario come variabile indipendente, l’avvocato Agnelli, allora presidente della Confindustria, avrebbe confidato ai suoi: “Ma Lama non sa che c’è il tasso di sconto”. L’aneddoto è probabilmente spurio – l’Avvocato non era tanto cinico – ma diceva una verità semplice. Il salario indipendente legava imprenditori e sindacati nella spirale dell’inflazione, ma con una differenza: la leva del credito e del cambio avrebbe trasferito sui lavoratori-consumatori il costo finale dell’inflazione, compresi gli aumenti derivati dal caro-denaro e dal deprezzamento del cambio. Analogamente la manovra del cambio, anche se ora si va verso i cambi fissi dentro il sistema monetario europeo, o le politiche di bilancio, cioè fiscali.
“L’economia non è un’equazione a una variabile. È un’ovvietà, ma va richiamata oggi che il sindacato, a vent’anni dall’ideologia del salario come variabile indipendente, sembra erigere a feticcio la stabilità monetaria. Onorevolmente impegnati ad applicare gli accordi del 31 luglio 1992 e del 3 luglio 1993 sulla politica dei redditi, e a favorire l’accesso dell’Italia alla moneta unica europea l’1 gennaio 1999, Cofferati, D’’Antoni e Larizza si sono trasformati in vice-governatori della Banca d’Italia, più intransigenti perfino del governatore Fazio. La Banca d’Italia è infatti preoccupata dagli squilibri che l’impegno per la stabilità sta creando: in particolare il crollo degli investimenti e dei consumi, e l’abnorme incremento della disoccupazione. Gli accordi di luglio sono stati applicati solo per ridurre l’inflazione, e quindi il costo del denaro, attraverso la riduzione del costo del lavoro, compresi gli oneri indiretti posti dal deficit pubblico, e dell’occupazione in alcune imprese – com’è giusto in un mercato ormai mondiale, a concorrenza esasperata, necessariamente flessibile. Ma niente è stato fatto per difendere un’altra stabilità, quella della produzione e del reddito.
“La stabilità dei prezzi è un bene per tutti. Per i pensionati, che ormai costituiscono oltre la metà degli iscritti ai sindacati, e per i lavoratori. Anche per una ragione economica. La cosiddetta “integrazione al reddito”, costituita da Bot, fondi d’investimento e altre rendite finanziarie, è da tempo diffusa. L’ex governatore della Banca d’Italia Carli assegnava per questo al debito pubblico (“fonte di reddito aggiuntivo per milioni di pensionati, impiegati, lavoratori autonomi”) una “funzione sociale e politica”. Pierluigi Ciocca e Fabrizio Barca hanno calcolato che ciò è vero anche per gli operai: “Il 29 per cento delle famiglie operarie possiede titoli di Stato (per un importo medio stimabile in 55 milioni per famiglia possedente”). E che il 41 per cento dei pensionati possiede titoli per una media di 102 milioni.
“I dati di Ciocca e Barca sono del 1991. Successivamente la stabilità ha solo nervosamente coperto un magma crescente d’insicurezza, su salario, lavoro, pensioni, che tocca gli anziani, i giovani e anche i meno giovani, le famiglie, che non spendono più, e le imprese, che non hanno a chi vendere. Il danno dell’insicurezza in materia di previdenza è incalcolabile: crescono le pensioni anticipate, dalle 300 mila del 1990 sono passate a 1 milione 250 mila nel 1996, mentre si riducono le entrate. Crescono il lavoro nero, non soltanto a Napoli e nel Salento, ma anche nel terziario avanzato, e l’atipico o precario: 6 milioni di posti su un totale di 24 milioni.
“La stessa stabilità vorrebbe un impegno del sindacato nelle funzioni tradizionali, per il salario e per l’occupazione. Si suole distinguere tra modello europeo del lavoro, ad alta produttività e bassa occupazione, e modello americano, a bassa produttività e alta occupazione. Ma la realtà è peggiore: abbiamo salari in calo e disoccupazione in crescita. E l’effetto è dirompente per la stessa economia produttivistica che il liberismo in auge propugna: in successione crollano la spesa, la domanda, la produzione, gli investimenti e, di nuovo, i salari e l’occupazione. Un circolo infernale. Si moltiplicano i contratti con retribuzioni al ribasso. Mentre per tre anni le retribuzioni sono cresciute al di sotto del tasso d’inflazione. Sono gli anni in cui, ha calcolato Fazio, da metà 1992 e metà 1996, sono stati tagliati 1,1 milioni di posti di lavoro (il saldo negativo era arrivato a 1,3 milioni di posti in meno nei trenta mesi da metà 1992 a fine 1994).
“La vulgata liberista vede nei salari solo dei costi mentre è da qualche tempo noto che sono anche reddito. Lo aveva capito già Henry Ford negli anni Dieci, e la sua intuizione ha alimentato l’economia mondiale per oltre mezzo secolo. Lo sanno benissimo gli economisti naturalmente, almeno dalla “Teoria generale” di Keynes. che è del 1936. Una riduzione generale e consistente delle retribuzioni ha sì un effetto positivo sui costi delle imprese, e quindi sulla loro redditività, ma ne ha uno negativo molto più ampio, a carico delle stesse imprese: i salari essendo redditi, e redditi con alta propensione di spesa, la loro riduzione restringe i consumi, e conseguentemente la domanda aggregata, investimenti compresi, avviando la spirale distruttiva della deflazione. Nello stesso 1936 lo riconosceva peraltro il precursore dei moderni liberisti, Ludwig von Mises: “Sarebbe meglio dire mancanza di salario anziché mancanza di occupazione”. Come dire che per l’economia è irrilevante che uno o dieci milioni di persone non lavorino, ma non che non guadagnino e non spendano.
“Malgrado gli equilibrismi dell’Istat e dell’Isco per convincerci che non siamo alla deflazione, È chiaro da alcuni mesi che la domanda aggregata è ferma, quella delle famiglie per i beni di consumo e quella delle imprese per investimenti. Tecnicamente non c’è deflazione: il reddito nazionale forse non aumenta, ma non diminuisce. Diminuiscono però il reddito immediatamente spendibile, di salariati e pensionati, e la propensione a spendere. Chiunque è in grado di constatarlo, per esempio per i beni di consumo durevole, automobili o elettrodomestici: si spende meno, si rinvia, ogni anno si compra meno del precedente. Un’altra rappresentazione fatta da Keynes negli anni Trenta diventa anticipatrice, uno scenario di fine dell’investimento e di disoccupazione di massa per due eventi ipotetici: un’assoluta “propensione alla liquidità” o “propensione all’accumulo”, per cui non si spende e non si investe, e conseguentemente un caso di deflazione e crollo delle aspettative, per cui anche con gli interessi nominali a zero nessuno prende più a prestito.
“La stabilità monetaria è solo di superficie, una crosta sottile su di un vulcano. A titolo di scongiuro, ovviamente, ma vale ricordare che il programma di stabilizzazione forzata dell’unione monetaria somiglia molto alle Sanierung con cui i governi austriaco e tedesco ritennero attorno al 1925 di aver consolidato la moneta e l’economia, e che finirono nella disoccupazione di massa e nella barbarie. Lo ha ricordato recentemente la sociopsicologa Marie Jahoda, che nel 1933 aveva studiato il caso austriaco nel classico “I disoccupati di Marienthal”, rilevando gli stessi segnali negativi: incuria e disservizi, moltiplicazione della delinquenza spicciola, degli homeless di varia natura, della droga, licenziamenti a valanga, in un quadro psicologico di depressione invece che di rivalsa. Era l’anno in cui l’Europa si consegnava al fascismo. La depressione del 1929 ha preso l’avvio da una violenta caduta della domanda aggregata. Oggi i sistemi di monitoraggio e di correzione sono migliori, e l’economia è globale e globalmente in crescita. Ma quando “il cavallo non beve” vuol dire che lo stomaco non funziona – il motore, il meccanismo della produzione e del reddito.
“Sull’occupazione il sindacato si è fermato all’accordo per il lavoro del 24 settembre. Un accordo larvale, il cui fulcro è la legalizzazione del lavoro in affitto. Un miserabile mercato delle braccia, che peraltro, secondo gli imprenditori non accrescerà l’occupazione. Nemmeno un piccolo passo, tra i tanti possibili, verso il “marketing del lavoro” che Beveridge propose dopo la crisi del 1929, attraverso la formazione, l’orientamento, l’avviamento, e le sperimentazioni non lesionistiche nel campo contrattuale – di cui Pietro Ichino fornisce peraltro, in “Il lavoro e il mercato”, un ampio ricettario. Il mercato del lavoro è sempre al “livello zero” o dei “secoli bui”, su cui l’inventore del Welfare State ironizzava, un precario “porta a porta”. Lontano anni luce è il Piano del lavoro che Giuseppe Di Vittorio impose alla Cgil a fine 1949: gli “scioperi a rovescio”, o lavoro senza paga, per insegnare che l’occupazione è utile, o la famosa “500” voluta dagli operai, che aprì alla Fiat la miniera delle piccole cilindrate.
“La disoccupazione comincia a essere reale, non più coperta dagli ammortizzatori sociali e da quelli familiari. Poco meno di un terzo della disoccupazione è ormai di lunga durata: un milione di persone che hanno perso il lavoro da oltre un anno……. Inoltre, l’Italia ha un mercato del lavoro debole. Le cifre del lavoro sono convenzionali e inaffidabili, specie nei confronti internazionali, ma un dato è evidente: la popolazione attiva è sempre stata in Italia inferiore (di molto inferiore per il lavoro femminile e giovanile) a quelle degli altri paesi europei. Sylos Labini ha calcolato che “in Italia negli ultimi 40 anni il volume totale dell’occupazione è cresciuto assai poco”, c’è solo stato uno spostamento dalla campagna alla città.
“L’Italia inoltre, contrariamente all’opinione corrente, non ha più il polmone del lavoro autonomo. L’Italia ha già un’altissima percentuale di lavoro autonomo dichiarata (senza cioè tenere conto del lavoro nero, di residenti e extracomunitari), il 23%, la più alta del gruppo dei Sette – sopravanzata solo da Turchia e Grecia, col 27%, nell’ambito dell’Ocse. Il lavoro autonomo, quello del micro-commercio e dei piccoli mestieri, è legato a forme non concorrenziali e perfino parassitiche di mercato. Fatti i conti dell’evidenza, viene il sospetto che la stabilità del sindacato sia l’erede dell’austerità di Enrico Berlinguer, e in genere della tradizione, aristocratica certo ma fortissima nella sinistra italiana, di chi nello sviluppo ha visto un’accentuazione degli squilibri e una minaccia”.
Featured image, i genitori di Enrico Berlinguer nel 1930.