Michele Marsonet. Fino a che punto possono gli scienziati – in quanto intellettuali – prendere le distanze nei confronti del potere? In realtà, la responsabilità morale degli uomini di scienza non può essere separata dal problema del potere politico. Soltanto la prospettiva di una vittoria dei nazisti, che gli appariva il male assoluto, indusse Einstein a consigliare il presidente Roosevelt di non lasciare a Hitler il monopolio della bomba nucleare. Dal canto suo Oppenheimer, che per lungo tempo ebbe fama di “falco”, cercò in seguito di prendere le distanze dal proprio passato, dicendosi convinto che uno studio più approfondito avrebbe potuto condurre i responsabili dei progetti nucleari a una visione diversa dei possibili impieghi delle nuove armi.
Quando scienziati come Einstein e Oppenheimer entrano a far parte di comitati governativi come quello per la costruzione dell’arma nucleare, essi diventano a tutti gli effetti consiglieri tecnici del potere: il parere che viene loro chiesto implica una scelta politica estremamente importante. E lo stesso accade per gli scienziati cui si richiede il parere specialistico, anche se non fanno parte di comitati. Gli uni e gli altri non agiscono – in tali circostanze – come ricercatori scientifici puri, ma in quanto cittadini la cui professione li pone in possesso di informazioni preziose circa un problema vitale per la nazione.
Non v’è dubbio che si debba tracciare la necessaria distinzione tra le responsabilità dello studioso e quelle del politico; tuttavia, le conoscenze che detiene lo scienziato non gli conferiscono diritti particolari negli affari pubblici. Allo stesso modo, egli non è tenuto a rispondere del buono o cattivo uso che la collettività farà del frutto dei suoi lavori: lo scienziato è responsabile soltanto del loro valore scientifico. Questa posizione è sicuramente più vicina alla concreta realtà umana delle utopie di Heisenberg, Einstein e Bohr, che sperarono nell’avvento di una sorta di “ordine internazionale degli intellettuali” per impedire il cattivo uso dell’energia nucleare e assicurare la pace mondiale. Sono ancora le parole di Albert Einstein a rivelarci che un grande scienziato non è automaticamente dotato di intuito politico. Egli infatti scrisse che: “Il segreto della bomba dovrebbe essere affidato a un governo mondiale, e gli Stati Uniti dovrebbero immediatamente annunciare di essere pronti a consegnarlo a un governo mondiale. Questo governo dovrebbe essere costituito dagli Stati Uniti, dall’Unione Sovietica e dalla Gran Bretagna, tutte e tre dovrebbero affidare a questo governo mondiale tutta la loro forza militare”.
Senza negare la nobiltà d’intenti di tanti scienziati, non si può fare a meno di pensare, quando si conoscano gli ambienti scientifici “reali”, che essi siano stati dominati da una qualche forma di idealizzazione. Coloro che vivono in tali ambienti non sono affatto esenti dalle più elementari debolezze umane: sentimenti di frustrazione, di gelosia, di rivalità, intervento prevaricante dell’interesse personale o di preferenze affettive nel loro comportamento verso gli altri. Gli scienziati, insomma, sono esseri umani come tutti gli altri: non necessariamente colui che è in grado di svelare i segreti della natura è esente da debolezze sul piano personale. L’esperienza quotidiana rivela proprio il contrario.
E’ interessante notare, a questo proposito, come si possa tracciare un parallelo tra utopie scientifiche e politiche. In ambito marxista, per esempio, si è partiti per decenni dal presupposto che alcuni rivoluzionari di professione avessero accesso diretto alla teoria “vera”, in grado di condurre alla liberazione definitiva del genere umano, e che gli assiomi indiscutibili di detta teoria dovessero essere trasmessi in modo automatico alle masse. Abbracciando acriticamente una tale concezione, si dava per scontato che tali rivoluzionari fossero dei superuomini non sottoposti al normale travaglio delle passioni, degli egoismi e dei desideri. Ma ciò, ovviamente, si è rivelato falso: i rivoluzionari leninisti erano individui imperfetti come tutti gli altri.
Se si esaminano dunque gli atteggiamenti dei grandi scienziati durante gli anni drammatici del secondo conflitto mondiale (e poi della guerra fredda), si vedrà che essi sono stati divisi e incerti, e che le forze politiche del tempo li hanno condizionati e manovrati. Gli scienziati non vivono in un mondo separato da quello dell’uomo della strada; una volta lasciato il laboratorio, essi si ritrovano nel mondo del senso comune come tutti gli altri membri del genere umano. La competenza scientifica – per quanto eccezionale sia – non basta a conferire in ogni circostanza autorità morale.
E’ dunque utopistico sperare che gli scienziati, in quanto collettività particolare, esercitino un’azione decisiva e unica sulle scelte di ordine pubblico. Ed egualmente ingiusto risulta scaricare sulle loro spalle responsabilità eccessive. L’attività professionale degli scienziati, come quella degli altri soggetti umani, si inserisce in una struttura sociale ed è dominata dal potere politico. Anch’essi si comportano in modo diverso nei confronti di questa struttura e di questo potere, a seconda delle loro convinzioni personali e dell’educazione ricevuta. Le conseguenze delle loro scelte hanno certamente un carattere inerente alla loro attività di scienziati, nel senso che sono spesso importanti. Ma la scienza non è certo l’unica attività sociale. Queste constatazioni non sono inutili, se si vogliono demistificare certe drammatizzazioni sul destino degli intellettuali-scienziati nel mondo moderno, come quelle dovute alla penna di Einstein e di altri studiosi del suo calibro.
Resta comunque il fatto che il ruolo crescente della scienza e della tecnologia nel mondo d’oggi moltiplica l’importanza delle scelte che lo scienziato è chiamato a prendere. Risulta difficile considerare lo studioso libero dalle conseguenze delle sue azioni, dal momento che esse si situano quasi sempre non sul piano della ricerca pura, ma su quello delle decisioni di carattere morale e politico.
Né è convincente supporre che tutta la responsabilità per l’utilizzo delle scoperte scientifiche debba essere lasciata ai politici, dei quali gli scienziati non sarebbero che i consiglieri tecnici. Quando l’intellettuale-scienziato usa le sue conoscenze per appoggiare le decisioni del potere o per influenzarle in un modo o nell’altro, si mette nella condizione in cui la distinzione di principio tra uomo di laboratorio e cittadino cessa di essere valida. In altri termini, lo scienziato non è un superuomo: non può servire d’esempio o di guida, né trincerarsi nel suo laboratorio come in una torre d’avorio. Ogni violenza è certamente detestabile in sé, ma succede di servirsene, o di credere di servirsene, contro il pericolo di una violenza ancora più esecrabile. E’ quanto pensavano di fare gli scienziati atomici nei primi anni ’40, giacché essi erano disposti a correre dei rischi per far sì che il mondo non cadesse in mano al totalitarismo. La domanda “Avevano ragione?” è una domanda “politica”, e rispondere significa, ipso facto, fare una scelta politica.
In conclusione, è ragionevole affermare che il carattere non assoluto della scienza ne determina i limiti. E, a sua volta, la presenza di tali limiti implica che l’intellettuale-scienziato non possa risolvere, facendo appello a criteri puramente interni, i dilemmi che impegnano tutti noi in scelte di valore. Ciò non significa disconoscere il ruolo fondamentale che la scienza svolge nella nostra attuale visione del mondo. Più semplicemente, equivale a riconoscere il carattere specificamente umano di quel particolare tipo di attività intellettuale rappresentato dalla ricerca scientifica.
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