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Tracey Emin: Love is what you want

Creato il 14 giugno 2011 da Nebbiadilondra @nebbiadilondra
Tracey Emin: Love is what you wantTracey Emin - Knowing My Enemy - 2002 - courtesy White Cube, Londra - photo Stephen White
Dal sobborgo londinese di Croydon, dov’è nata, a Margate, sulla costa del Kent, nel Sud dell’Inghilterra, dov’è cresciuta; e ancora lo stupro, l’aborto, il successo, l’alcolismo, il suo gatto, l’incapacità di trovare l’amore o di avere un figlio: non passa giorno senza che i media riportino un brano più o meno scandaloso della sua vita. Una vita così costantemente sotto i riflettori che, più che con l’artista nominata per il Turner Prize, sembra di avere a che fare con un personaggio del Truman Show. E allora che cosa ci racconta di nuovo, di lei, la retrospettiva alla Hayward Gallery?
Tenera, aggressiva, affettuosa, arrogante, provocante: Tracey Emin (Londra, 1963) non tenta mai di sembrare diversa da se stessa. E non vuole. Credendo fermamente che avere segreti sia una cosa pericolosa, l’artista apre al mondo il vaso di Pandora delle sue emozioni. E la sua onestà è disarmante: ciò che può sembrare esibizionismo gratuito non è altro che il tentativo di comprendere e scendere a patti con i traumatici eventi che hanno segnato la sua vita. E il trauma è ovunque, nell’arte della Emin: nelle coloratissime trapunte che punteggiano le pareti della Hayward Gallery, nei disegni, nelle sculture e nelle installazioni di grandi dimensioni e nei numerosi video che compongono Love is what you want.
Tracey Emin: Love is what you wantTracey Emin - Self Portrait (Sometimes there is no tomorrow) - 2007 - courtesy White Cube, Londra
Ogni opera di questa straordinaria retrospettiva sembra sfumare nella successiva. Videoinstallazioni come Why I never became a dancer e How it Feels, in cui la Emin descrive con la calma surreale gli abusi sessuali dell’adolescenza in Margate e la sofferenza, fisica e mentale, dell’aborto sono opere di straordinaria intimità, veri e propri videodiari di un’anima inquieta che cerca chiarezza. [...]Leggi il resto su Artribune

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