Magazine Cultura
Sull'incontro di mercoledì 15 maggio con la scrittore americano Jonathon Keats che ha presentato il suo libro di racconti “Il libro dell’ignoto” edito da La Giuntina e con Silvia Pareschi compagna dell’autore e traduttrice di tanti importanti scrittori americani contemporanei.
Forse è in quella frase del Talmud che sta prima della prefazione la chiave per percepire la grandezza del libro di racconti di Jonathon Keats, autore americano ebreo, che ripercorre la strada della tradizione con racconti che vengono direttamente dai villaggi ebraici dell'est europeo tutti inevitabilmente cancellati dalla shoà. In quel piccolo mondo chiuso hanno convissuto un'umanità dove tutti avevano una collocazione e nessuno veniva disprezzato per quello che faceva o non faceva. “Non disprezzare nessuno e non ritenere nulla impossibile, poiché ogni uomo ha la sua ora e ogni cosa il suo posto“. Il mercante, il dotto, e il mendicante facevano tutti parte di un unico disegno e l'attenzione e il rispetto che si portava per i più sfortunati era una verità che veniva da una saggezza millenaria. L'ingenuità dei più umili è un premio per il mondo intero. Nel film “Un train de vie” di Radu Mihaileanu, è Shlomo il pazzo del villaggio che narra la storia surreale del treno d, è sua l'idea di salvezza attraverso la mimetizzazione del treno allestito dagli abitanti del suo villaggio per fuggire alla furia nazista e che solo alla fine si rivela come il sogno infranto di tutta la comunità. Al mondo ci sono 36 Giusti sconosciuti a se stessi e agli altri ed è grazie a loro che Dio mantiene nella sua mente la visione del mondo. Nella prefazione al suo libro di racconti “Il Libro dell'ignoto” l'autore racconta come un cabalista troppo precoce e curioso rischiò di sconquassare il mondo cercando di scoprire i nomi dei Giusti. Il mondo si trovò sull'orlo del precipizio e Yaakov il cabalista morì per avere osato troppo. Da questa leggenda l'autore trae spunto per raccontare le dodici storie esemplari contenute in questo libro. Sono le storie di uomini e donne umili, di persone ordinarie e insignificanti spesso derise per la loro idiozia, o infamate per il loro lavoro ma che per ragioni che solo l' Onnipotente custodisce sono gli architravi che sorreggono il mondo. Sono storie e leggende che appartengono al mondo intero, escono infatti dal piccolo cortile dello shtetl nel quale sono nate e prendono il largo, navigano leggere con poco vento sostenute da una saggezza illimitata. Una singolare messa in campo della tradizione ebraica e della traduzione che ne segue. Sulle mille trappole della traduzione e degli infiniti dubbi che prendono il traduttore davanti a improvvisi crocevia semantici ha ragionato Silvia Pareschi traduttrice di molti autori americani contemporanei compreso Jonathon keats, suo marito. Gli scrittori imprimono coscienza ai materiali che convulsamente pulsano attorno a loro, ne diventano gli organizzatori amorevoli e disciplinati, ne rimangano suggestionati, trasmettono a tutti la loro passione di amanti di storie che riscrivono nella consapevolezza che non c'è altro da raccontare che la stessa storia, sempre la stessa, con infinite varianti ancora da narrare ma di cui qualcuno ha già sentito parlare, destino anche di questo libro che il traduttore si incarica di convertire in un altra lingua, come un “altro” scrittore che compone un'opera a seguito dell'originale e ne organizza i materiali cercando di non far sentire troppo o troppo poco la sua voce. Come nei mondi paralleli borgesiani ogni libro, come ogni altra creatura, ha il suo omologo, una replica, o se si vuole una traduzione da parte di un altro scrittore che trasforma in un altra lingua suggestioni che non ha pensato originariamente ma di cui si fa carico. Perciò ogni buon traduttore si cala nel mondo di un altro scrittore per un tempo che potrebbe dilatarsi iperbolicamente all'infinito, e vi rimane immerso come testimone di quel mondo, particella del paesaggio che va descrivendo scegliendo la direzione da dare alle parole senza tradire troppo l'intento dell'autore. Per queste ragioni la traduzione non sembrerebbe una semplice riflessione sulle parole da usare, un esercizio speculare di conversione delle parole originali in un altra lingua ma un'opera complessa di rifrazione del testo, come se i segmenti dei due scritti non combaciassero perfettamente e il tradotto fosse leggermente spostato di lato e giacesse accanto all'originale sostenendolo provvisoriamente. La sensazione perciò di avere presenti nel contempo due mondi che dicono più o meno la stessa cosa è sorprendente specie se la traduzione restituisce l'aura del testo tradendo almeno un po' le parole. Ne consegue che condizione preliminare è la percezione del clima del racconto, poi si traducono le parole facendole entrare in quel particolare humus espressivo contribuendo indubbiamente alla creazione di una “seconda opera“. di Ivano Nanni
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