“Vizilie di Nadâl: gran fogolâr / con sore il nadalin /…La stele cui trê Rês, / piorutis o pastôrs, / e agnoluz che la glorie van cjantant / a Chel ch'al è nassût…” Nel tempo antico il presepio era un'usanza dei monasteri, poi passo alle chiese ed in fine alle case private. Nel secolo XVIII era una tradizione delle famiglie nobili preparare presepi nei loro palazzi, il popolo era invitato a venirli a vedere e con l'occasione riceveva anche doni e cibaria. Ma i bambini preferivano quelli che si portavano, in maniera itinerante, nelle famiglie. Con la piccola statua del Bambin Gesù andavano di casa in casa cantando strofe natalizie, che erano diverse da paese a paese, o brevi poesie. In Carnia il canto era “La Stele”, legato alla tradizione del bastone con la stella (stella e bastone che si possono osservare ancora oggi presso il Museo di Tolmezzo), che i ragazzi facevano girare mentre erano impegnati nelle loro visite augurali. Il dovuto, per auguri così speciali, erano i così chiamati “siops”, oppure qualche soldo. “Sops, sops / coculas e lops / dait o no dait / in Paradîs lait”. Secondo certi autori il termine “siop” diviene dal latino “si opes”. Ops era una divinità italica che assieme con Saturno proteggeva i raccolti, si festeggiava alla fine di dicembre. Ma chi sa più il giorno d'oggi cosa sono i “siops”? Un dono augurale, nocciole, castagne, patate lesse, chicchi di granoturco bolliti, fagioli, qualche pane dolce e, immancabili, noci e mele. Le noci, simbolo della grazia divina ma anche di fertilità ed abbondanza, sono pure l'ingrediente indispensabile dei dolci che si fanno nel tempo delle feste di Natale. Pane di noci, potize e zelten. E poi mele “rosse come il sangue, tonde come il mondo, dolci come… la bontà divina”; era usanza mangiarle alla vigilia per tenere lontano ogni male. Ah la vigilia di un tempo! Comprendeva diversi riti, forse il più importante era quello che prevedeva che si dovesse accendere il gran ceppo, il così chiamato “Nadalin”, nel focolare. Il ceppo, già preparato a novembre o a dicembre veviva portato in casa dal padre, accompagnato da tutta la famiglia. I bambini portavano candele, era benedetto ed in fine acceso, il suo fuoco doveva essere mantenuto vivo fino a Capodanno; secondo la leggenda, era per la Madonna, perché potesse asciugare i panni del Divino Bambino. Così dopo la cena (di magro), la famiglia si ritrovava accanto al focolare, la luce del Salvatore venuto sulla terra avvolta nelle tenebre. Nessuno era dimenticato nel corso della “vee”, agli animali nella stalla si dava del fieno in più perché scaldassero, con il loro fiato, il Bambinello. In certi paesi si usava anche benedire la casa e la proprietà. Poi si ritornava tutti accanto al fuoco in attesa della mezzanotte, a vegliare in questa notte certamente miracolosa. Un pò in disparte, dietro il focolare, i fidanzati si scambiavano i “siops”, che poi mangiavano assieme. Ai racconti dei nonni, alle preghiere (in certi luoghi si recitava il rosario) si mescolavano gli evviva augurali di vino o vin brulè o grappa, dove magari s'inzuppavano delle piccole ciambelle (“colaçs” oppure “mostaçons”), che la padrona di casa aveva anzitempo preparato sulle guantiere, e non mancavano le stecche di mandorlato. In fine, per chiudere la cena in allegria, arrivavo spesso anche le frittelle.Conclusa la Messa di mezzanotte, una scodella di trippe, o di spezzatino, era l'occasione per gli uomini per passare nell'osteria a scambiare i primi auguri di Natale con gli amici, i figliocci ed i parenti. Tutto questo, oramai, è solo un ricordo, rimangono vivi in parte le tradizioni gastronomiche, l'abete addobbato e soprattutto il presepio a ricordarci il significato profondo e simbolico del Natale, il suo messaggio d'amore che e ben espresso in una formula augurale irlandese: “… e, fino al nostro prossimo incontro, possa il Signore tenerti nel palmo della Sua mano”.
“Vizilie di Nadâl: gran fogolâr / con sore il nadalin /…La stele cui trê Rês, / piorutis o pastôrs, / e agnoluz che la glorie van cjantant / a Chel ch'al è nassût…” Nel tempo antico il presepio era un'usanza dei monasteri, poi passo alle chiese ed in fine alle case private. Nel secolo XVIII era una tradizione delle famiglie nobili preparare presepi nei loro palazzi, il popolo era invitato a venirli a vedere e con l'occasione riceveva anche doni e cibaria. Ma i bambini preferivano quelli che si portavano, in maniera itinerante, nelle famiglie. Con la piccola statua del Bambin Gesù andavano di casa in casa cantando strofe natalizie, che erano diverse da paese a paese, o brevi poesie. In Carnia il canto era “La Stele”, legato alla tradizione del bastone con la stella (stella e bastone che si possono osservare ancora oggi presso il Museo di Tolmezzo), che i ragazzi facevano girare mentre erano impegnati nelle loro visite augurali. Il dovuto, per auguri così speciali, erano i così chiamati “siops”, oppure qualche soldo. “Sops, sops / coculas e lops / dait o no dait / in Paradîs lait”. Secondo certi autori il termine “siop” diviene dal latino “si opes”. Ops era una divinità italica che assieme con Saturno proteggeva i raccolti, si festeggiava alla fine di dicembre. Ma chi sa più il giorno d'oggi cosa sono i “siops”? Un dono augurale, nocciole, castagne, patate lesse, chicchi di granoturco bolliti, fagioli, qualche pane dolce e, immancabili, noci e mele. Le noci, simbolo della grazia divina ma anche di fertilità ed abbondanza, sono pure l'ingrediente indispensabile dei dolci che si fanno nel tempo delle feste di Natale. Pane di noci, potize e zelten. E poi mele “rosse come il sangue, tonde come il mondo, dolci come… la bontà divina”; era usanza mangiarle alla vigilia per tenere lontano ogni male. Ah la vigilia di un tempo! Comprendeva diversi riti, forse il più importante era quello che prevedeva che si dovesse accendere il gran ceppo, il così chiamato “Nadalin”, nel focolare. Il ceppo, già preparato a novembre o a dicembre veviva portato in casa dal padre, accompagnato da tutta la famiglia. I bambini portavano candele, era benedetto ed in fine acceso, il suo fuoco doveva essere mantenuto vivo fino a Capodanno; secondo la leggenda, era per la Madonna, perché potesse asciugare i panni del Divino Bambino. Così dopo la cena (di magro), la famiglia si ritrovava accanto al focolare, la luce del Salvatore venuto sulla terra avvolta nelle tenebre. Nessuno era dimenticato nel corso della “vee”, agli animali nella stalla si dava del fieno in più perché scaldassero, con il loro fiato, il Bambinello. In certi paesi si usava anche benedire la casa e la proprietà. Poi si ritornava tutti accanto al fuoco in attesa della mezzanotte, a vegliare in questa notte certamente miracolosa. Un pò in disparte, dietro il focolare, i fidanzati si scambiavano i “siops”, che poi mangiavano assieme. Ai racconti dei nonni, alle preghiere (in certi luoghi si recitava il rosario) si mescolavano gli evviva augurali di vino o vin brulè o grappa, dove magari s'inzuppavano delle piccole ciambelle (“colaçs” oppure “mostaçons”), che la padrona di casa aveva anzitempo preparato sulle guantiere, e non mancavano le stecche di mandorlato. In fine, per chiudere la cena in allegria, arrivavo spesso anche le frittelle.Conclusa la Messa di mezzanotte, una scodella di trippe, o di spezzatino, era l'occasione per gli uomini per passare nell'osteria a scambiare i primi auguri di Natale con gli amici, i figliocci ed i parenti. Tutto questo, oramai, è solo un ricordo, rimangono vivi in parte le tradizioni gastronomiche, l'abete addobbato e soprattutto il presepio a ricordarci il significato profondo e simbolico del Natale, il suo messaggio d'amore che e ben espresso in una formula augurale irlandese: “… e, fino al nostro prossimo incontro, possa il Signore tenerti nel palmo della Sua mano”.
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