Questa recensione nasce in seguito ad un dibattito, con il pubblico, dopo la proiezione della pellicola all’interno del cineforum interattivo “(004)Days of summer”.
“Transamerica” è un film da vedere per tanti motivi. E’ un calderone di idee, di tematiche, di suggestioni, e descrive una realtà e una condizione che sembrano lontane anni luce, ma che possono e devono essere vissute più da vicino. In questo viaggio tra immagini, paesaggi ed incontri, un po’ come fu per “Into the wild” di Sean Penn, si racconta di un uomo che decide di affrontare l’intervento per diventare donna, dimenticare Stan per diventare Bree, ma che dovrà affrontare un viaggio interiore ancor prima che in giro per l’America alla scoperta di una propria identità. La religione, onnipresente nel film, merita un approfondimento a parte dato che negli Stati Uniti è argomento molto sentito, e soprattutto diventa qui sinonimo di passepartout nella società, sinonimo di fiducia assoluta. Si pensi ad esempio alla sequenza nel carcere, o alla totale fiducia che Toby, il ragazzo protagonista interpretato da Kevin Zegers, ripone in colei che si spaccia per rappresentante della chiesa. La chiesa del “padre potenziale” diventa quindi un gioco, una satira neanche troppo velata, in cui si mescolano religione e ciò che il protagonista cercherà di essere. La religione non è il tema unico del film, come non lo è l’ambientazione “on the road” tanto cara all’America. Ma allora “Transamerica“, dell’esordiente Duncan Tucker, di cosa parla? Se la questione religiosa è un puro contorno, ciò che è davvero rilevante è il tema del “genere”, che evade quindi dal quel filone legato ai diritti del cittadino (si pensi a “Milk” giusto per citarne uno) , assieme a quello del confronto visto in particolare come incontro. Inevitabile in quest’ottica che l’identità sessuale venga affrontata in maniera intima oltre che nei confronti di un mondo che sembra quasi destinato a rifiutare questa diversità, come ad esempio fa, tanto per citarne uno, la madre di Bree, simbolo, anche estetico, dell’America intransigente degli anni ’50. Tutto questo avviene anche attraverso l’incontro di anime, attraverso il superamento dei limiti che Bree, la brava Felicity Huffman, vede nel proprio corpo, e che la porta come individuo ad avere rispetto per se stessa e ad esigerne dagli altri. E’ quindi la storia di un’anima fragile che diventa forte, anche attraverso il rapporto con un figlio, avuto nella “vita precedente”, pieno di problemi e fondamentalmente solo, esattamente come si sentiva Bree. Si potrebbe parlare ancora del rapporto genitori-figlio, o delle condizioni di vita che inevitabilmente delineano i caratteri e le scelte, o del rapporto tra normalità e diversità (chi è davvero normale?). “Transamerica” è uno di quei film che deve essere visto, perchè, muovendosi sinuosamente tra commedia e dramma (è una scelta filosofica o una scelta meramente commerciale? Ai posteri l’ardua sentenza), attraverso le immagini e le musiche, attraverso momenti indelebili (la sequenza del grammofono in cui la voce femminile diventa maschile e viceversa, quasi a creare immedesimazione nella storia, ne è un esempio), attraverso interpretazioni fuori dal comune, nonostante un doppiaggio italiano opinabile di Bree, parla di un mondo intero, che potrà pure apparire lontano ma che in realtà è davvero vicino. Per dirla come uno dei personaggi incontrati durante il viaggio di Bree, e quindi degli spettatori: “Siamo in mezzo a voi“.
Voto 7,5/10