Trash è da un lato un film fin troppo facile, pronto a giocare su sentimenti più che condivisibili, specchio di un’idea di cinema poco adulta, vittima di se stessa e di sensazioni banalmente riconducibili a schemi narrativi più che prevedibili. La parabola stracciona dei tre bambini brasiliani poveri e puri, soffre di una linearità incurabile, edulcorata da una valanga di buoni sentimenti ed ottimismo a buon mercato. Un disastro penserete voi, eppure quando meno ce lo si aspetta, ecco farsi largo la seconda anima di Stephen Daldry e del suo cinema, spiccatamente votata alla sincerità e al melodramma più sfacciato e plateale.
Resta innegabile il valore di un film che ci ricorda, ce ne fosse davvero bisogno, che la maggior parte del mondo vive in condizioni di precarietà e miseria allarmanti. Ecco l’anima che conquista di Trash, quella che fa riflettere e indignare, sperare e sognare che gli umili e gli oppressi possano, un giorno, avere la meglio su chi li vuole ridurre al silenzio. Trash, sinceramente e spudoratamente, facendo leva sul cuore di ognuno di noi, attraverso gli occhi spalancati e pieni di paura e coraggio dei suoi piccoli protagonisti, ci restituisce un’empatia e un’utopia figlie di un Dio minore, ma di un sogno enorme.
Daldry non delude e non demorde, seguendo da vicino i suoi piccoli protagonisti, pedinandoli in maniera paterna, sempre ravvicinatissima, mai superficiale o distratta, incurante della retorica e del telefonato buonismo che a volte lo affossa. Il cinema dopotutto è questo, raccontare la propria storia incuranti delle conseguenze e dei giudizi tagliati con l’accetta di una platea arida e disillusa. Zoppicante eppure mai domo, sognante, illusorio, facile, scontato, eppure mai più così sincero.
State lontani dalla versione doppiata italiana, Rooney Mara con l’accento finto british non si può sentire.